Friend Zone (Prima parte), G - Romantico - Commedia - Twv not related - AU - OOC - Introspettivo

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Redda
view post Posted on 16/4/2013, 15:46




Titolo: Friend Zone
Autore: Redda
Genere: Romantico / Commedia
Raiting: G
Avvisi: TWC not related - AU - OOC - Introspettivo
Riassunto: Concluse quel suo discorsetto con questa frase: oggi è il giorno in cui uscirò dalla friend zone. Partì poi una musichetta e, sullo schermo nero, comparve la scritta “Friend Zone. Amici o fidanzati?”, dietro la quale c’era un grosso cuore luminoso.
Ma che cavolo…? Dimenticandomi dei dolori e del mal di testa, mi misi a sedere e alzai un po’ di più il volume.
Avevano creato un programma basandosi sulla mia vita e lo venivo a sapere solo adesso?


Disclaimer: I personaggi di questa storia non mi appartengono, niente di quello che ho scritto è mai successo e non ci guadagno niente a farlo.



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Friend Zone by Redda is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.

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Friend Zone - Prima parte




Quel giorno mi svegliai più tardi del solito, con immensa gioia della mia sveglia, che non fu costretta a subire le solite percosse mattutine, perché si ostinava a suonare sempre cinque minuti prima del previsto, quasi lo facesse apposta. Alla fine l’influenza aveva colpito anche me, costringendomi a restare a letto. Non avrei mai dovuto accettare gli appunti di Bertha Haller, sono stato un vero idiota, perché lo sapevo bene che era stata lei a contagiarmi, non per niente veniva chiamata “Virus” da tutta la scuola, professori compresi; aveva mietuto più vittime della peste bubbonica del XIV secolo. Ed ora mi ritrovavo a pagare le conseguenze del mio gesto sconsiderato.

Non mi si poteva definire esattamente un bel vedere: avevo gli occhi lucidi, il naso arrossato, la voce cavernosa da uomo di Neanderthal e le forze erano meno di zero, senza contare che la mia testa sembrava essere fatta di cemento, e qualcuno, lì dentro, la stava battendo con un piccone. Insomma stavo veramente da schifo e i produttori di The walking dead avrebbero anche potuto scritturarmi per fare la comparsa, non avevo nemmeno bisogno di passare al trucco, quello era già compreso nel pacchetto.

L’unica nota positiva era che l’influenza mi aveva permesso di restare a casa, mentre tutti gli altri si trovavano dietro i banchi di scuola a sgobbare sui libri, seguendo noiosissime lezioni; di sicuro sarebbe stato molto più divertente se solo avessi avuto la forza di sollevare un muscolo, invece il massimo che riuscivo a fare era starmene lì a rantolare come uno zombie e a rigirarmi sotto i tre piumoni che mia madre mi aveva sistemato sul letto, con l’intento di farmi sudare il più possibile, in modo che la febbre scendesse prima, e c’era da dire che stavano facendo il loro lavoro ma mi sentivo come un bruco dentro un bozzolo, o una mummia nel proprio sarcofago, e faticavo a muovermi.

Per di più le medicine che mi aveva prescritto il mio medico di famiglia, fissato con l’omeopatia, facevano davvero schifo e sapevano di broccoli andati a male, lasciati a marcire all’aria aperta, e la puzza, se possibile, era ancora peggio, sembrava quasi avesse appestato tutta la stanza; temevo che arrivasse fino alla casa dei miei vicini, i quali, insospettiti da quel fetore pestilenziale, sarebbero poi corsi a chiamare la polizia, convinti del fatto che qui dentro ci fosse un cadavere, anche perché il tanfo era molto simile a quello di un corpo in decomposizione; non che mi fosse mai capitata l’occasione di odorarne uno, ma ero certo che un cadavere puzzasse allo stesso modo.

Insisteva nel propinami quella robaccia fatta di erbe, perché, secondo lui, era molto più salutare rispetto a tutti quei componenti chimici che si trovavano nelle altre medicine, ma, a dir la verità, non ne avevo trovato alcun giovamento, solo un gran senso di nausea che mi aveva accompagnato per tutta la notte, che già di per sé non era stata una delle migliori della mia vita. Non era stato affatto divertente, specie perché, ogni volta che avevo sentito un conato, non ero riuscito a liberarmi da quella prigione di coperte; per fortuna non era successo il peggio, l’ultima cosa di cui avevo bisogno era proprio quello. Il solo pensarci mi faceva contorcere lo stomaco.

Ormai ero sdraiato a letto da così tante ore da aver perso completamente la cognizione del tempo, per di più non riuscivo a voltare il capo per controllare la radiosveglia sul comodino, e il cellulare era andato disperso chissà dove. L’unica cosa di cui ero certo era il fatto che fosse giorno, per via della luce che filtrava dalle tapparelle mezze alzate, ma non sapevo se quello che vedevo fosse il sole del mattino o del pomeriggio.

Per quel che ne sapevo poteva anche esserci stata un’invasione aliena durante quelle ore, o magari erano giunti i quattro Cavalieri dell’Apocalisse, che avevano scatenato l’inferno sulla terra. In effetti lì fuori era fin troppo silenzioso e non si sentiva nemmeno il cane dei vicini, che aveva il brutto vizio di abbaiare a ogni ora, puntuale quanto un orologio svizzero. Possibile che fossi davvero l’ultimo sopravvissuto della razza umana?! Dopo un primo momento di puro terrore, in cui pensai all’orribile sorte che era toccata alla mia famiglia e ai miei amici, che non avrei più potuto rivedere, mi diedi mentalmente dell’idiota; l’influenza mi stava facendo delirare, o forse era solo un effetto collaterale di quelle pastiglie. Chissà che razza di robaccia ci avevano messo lì dentro, altro che erbe naturali! In effetti devo ammettere che il mio medico mi aveva sempre dato l’impressione di essere un tizio piuttosto losco, aveva i tipici tratti di un delinquente della peggior specie, e quelle avrebbero anche potuto essere pasticche che contenevano qualche nuovo tipo di droga; questo avrebbe spiegato i miei strani sproloqui mentali. Il suo intento era quello di farmi credere di non riuscire a guarire dall’influenza, in questo modo avrebbe continuato a prescrivermele, fino a farmi diventare dipendente.

Spalancai la bocca, scioccato da quell’improvvisa e terrificante rivelazione. Come avevo fatto ad accorgermene solo in quel momento? Ora che, probabilmente, per me era troppo tardi; potevo ritenermi spacciato.

Qualcuno bussò alla porta della mia camera e, un attimo dopo, mia madre fece capolino, ma non le diedi neanche il tempo di pronunciare una sola parola.

«Mamma corri alla polizia!», esclamai in tono concitato. «Il nostro medico è uno spacciatore e sta tentando di drogarmi, ed io lo so cosa succede ai drogati: cominciano a perdere i denti, poi è il turno dei capelli e la pelle ti diventa come quella degli elefanti. Non voglio assomigliare a Dumbo! Ho già dei seri complessi riguardo alle mie orecchie».

Mia madre mi osservò con uno sguardo confuso, ma decise di lasciar perdere i miei deliri senza senso, perché sapeva che erano dovuti alla febbre alta, e un po’ erano anche farina del mio sacco, questo dovevo ammetterlo anch’io. Aveva fatto male a farmi vedere tanta televisione quando ero un bambino, ne ero rimasto molto turbato, anche perché mio padre era un vero appassionato di thriller, e mi aveva sempre obbligato a guardarli insieme a lui, pensando che, in questo modo, avrei coltivato la tua stessa passione, ma non era andata esattamente così. Era per questo motivo che vedevo assassini e deviati mentali ovunque.

«Tom nessuno sta tentando di drogarti, puoi stare tranquillo».

«Come fai a esserne tanto sicura?», domandai, con lo sguardo stralunato come quello di un pazzo. «Quel tizio ha un’aria strana e parecchio inquietante, sono sicuro che nasconde qualcosa di losco. Avrà comprato la laurea su internet, giusto per avere un alibi, ma, in realtà, è coinvolto in un grosso giro di droga e ora anch’io ci sono finito in mezzo. Potrebbero sbattermi in galera!».

«Vorrà dire che ti porterò le arance ogni settimana», mi rispose lei, come se niente fosse.

«Non mi prendi sul serio!», sbottai, indignato di fronte a quell’evidente dimostrazione di scetticismo. Mia madre stava deliberatamente ignorando il fatto che ero in pericolo di vita, come poteva essere tanto tranquilla? Ero pur sempre il suo unico figlio, avrebbe almeno potuto fingere di essere preoccupata.

«Ed è un bene che io non lo faccia. Comunque sono venuta qui per dirti che sto andando a fare la spesa, vuoi che ti prenda qualcosa al supermercato?».

«Un po’ di anticorpi, o magari un miracolo», risposi mentre mi soffiavo il naso, arrossandolo ancora di più, tanto che ormai assomigliavo a un clown da circo, uno di quelli che si crede simpatico ma che fa scoppiare a piangere tutti i bambini presenti.

«Preferisci gli anticorpi freschi o vanno bene anche quelli surgelati? Dovrebbero essere a metà prezzo», scherzò lei, ridacchiando divertita per quella sua esilarante battuta.

«Ridi del mio dolore», mi offesi, assumendo un’espressione corrucciata. Invece di mostrarsi premurosa mi prendeva per i fondelli. «Sei proprio una donna senza cuore!».

«Che esagerato», minimizzò lei, sventolando appena una mano. «È solo una banale influenza, passerà in pochi giorni. L’importante è che tu continui a prendere le tue pastiglie, e vedrai che presto ti sentirai molto meglio».

«Banale?!», esclamai, strabuzzando gli occhi, quasi le avessi appena sentito pronunciare una brutta parolaccia. «È come se l’angelo della Morte avesse deciso di mettersi a ballare il tip tap sul mio sterno, con indosso un paio di scarpe chiodate. Rendo l’idea?».

«Assolutamente», asserì mia madre, trattenendo a stento una risata di fronte a quella che lei riteneva essere la fervida immaginazione di suo figlio. È proprio vero che quando gli uomini si ammalano tendono a trasformare un lieve raffreddore in una malattia mortale; ne ero la prova vivente (beh vivente mica tanto), ma anche mio padre non scherzava in quanto a teatralità, per quel verso eravamo davvero simili . «Devo allertare l’obitorio e dir loro di tenersi pronti?».

«Non sei divertente», borbottai, nascondendo il capo sotto il cuscino, proprio come facevo quando era bambino. «Prima non mi credi quando ti dico che il nostro medico è un pericoloso malvivente, e ora ti prendi apertamente gioco di me, senza pensare a quanto io stia soffrendo. Vattene, lasciami solo nel mio dolore».

«Non ci metterò molto, nel frattempo cerca di sopravvivere fino al mio rientro. Più tardi sceglieremo insieme i colori per le corone di fiori».

«Continua pure a rigirare il coltello nella piaga, non riderai più così tanto quando mi troverai privo di vita, sconfitto da questo male incurabile», dissi, e la sentii ridere. «Mà», mi affrettai a chiamarla, prima che se ne andasse. Sollevai il cuscino e la guardai con un’espressione da cucciolo. L’influenza mi aveva fatto diventare bipolare, come una donna in piena fase pre-mestruale.

«Che c’è tesoro?».

«Me li prendi i negerküsse… e gli orsetti gommosi? Mi farebbero stare molto meglio e sono certo che mi aiuterebbero a guarire, prima che per me sia troppo tardi».

«Tutto per il mio piccolo bambino malato».

Mia madre sospinse la porta e la potei udire mentre usciva di casa, canticchiando un motivetto, e metteva in moto la macchina. Ora ero di nuovo solo e la noia cominciava ad essere veramente insopportabile, ma cosa potevo fare? Non avevo la forza di alzare le chiappe e raggiungere la scrivania – era già un’agonia doverlo fare per andare in bagno, e a certi bisogni non potevo sottrarmi –, e leggere mi avrebbe fatto aumentare l’emicrania, che non mi aveva ancora dato un attimo di tregua. Ero condannato a fissare i granelli di polvere che vedevo fluttuare nel cono di luce che proveniva dalla finestra?

La mia ultima spiaggia era la televisione, ma non c’era mai niente di abbastanza interessante da vedere, questo lo sapevo già a priori, e ormai la tenevo lì solo per poter giocare alla Playstation. Facevo parte di quella generazione che preferiva affidarsi allo streaming per vedere film e telefilm; la tv era diventato un oggetto obsoleto, e poi la pubblicità era sempre troppo lunga, mi faceva passare la voglia di star lì ad aspettare che ricominciasse il programma o il film che stavo vedendo, e la mettevano proprio sul punto migliore, rovinando la scena.

Magari avrei potuto guardarla fino a riaddormentarmi, tanto non mi ci sarebbe voluto molto; quando mi ammalavo tendevo ad assumere lo stile di vita di un bradipo: mi muovevo con estrema lentezza e dormivo per la maggior parte del tempo, anche se io non ero altrettanto peloso.

Vagai con la mano sul copriletto, disseminato di fazzolettini usati, potenzialmente infetti per chiunque altro avesse avuto il coraggio di mettere piede in quella che io avevo rinominato “la stanza della quarantena”; in una sola notte ero riuscito a finire tutti quelli che c’erano in casa, e non erano bastati. Riuscii a trovare il telecomando – e anche i resti di un Mars mezzo smangiucchiato, che era lì da chissà quanto – dopo qualche minuto di ricerca, e, con gran fatica, sollevai il braccio, puntandolo verso la spia rossa.

Beccai prima un telegiornale e successivamente una soap opera adatta alle casalinghe di mezza età, e quella non faceva proprio per me, così cominciai a fare zapping, fino a trovare il canale di MTV. Era da una vita che non lo guardavo e, ormai, di musica ce n’era rimasta ben poca; si vedevano solo ragazzine con il pancione e tizi pompati e abbronzati, il cui unico scopo nella vita era quello di far festa e di vomitare l’anima per il troppo alcool ingurgitato.

La pubblicità annunciò che il prossimo programma sarebbe cominciato a breve; sperai che fosse abbastanza noioso da farmi assopire il prima possibile, per lo meno sarebbero trascorse un altro paio d’ore.

La schermata cambiò e apparve la testa di un ragazzo, un biondino con gli occhi azzurri e la tipica abbronzatura da surfista, che si trovava di fronte a uno sfondo scuro e sembrava quasi che stesse galleggiando per aria, come per magia.

Si chiamava Justin e disse di essere innamorato della sua amica Lori da circa due anni. Spiegò che avrebbe fatto finta di chiedere il suo aiuto per un appuntamento al buio, che in realtà aveva organizzato solo per lei, perché non poteva più tenere celati i suoi sentimenti, e sperava che non gli dicesse di no perché ne sarebbe uscito distrutto, e per lui sarebbe stato impossibile trovare un’altra ragazza che potesse assomigliarle, dal momento che la considerava unica. Concluse quel suo discorsetto con questa frase: oggi è il giorno in cui uscirò dalla friend zone. Partì poi una musichetta e, sullo schermo nero, comparve la scritta “Friend Zone. Amici o fidanzati?”, dietro la quale c’era un grosso cuore luminoso.

Ma che cavolo…? Dimenticandomi dei dolori e del mal di testa, mi misi a sedere e alzai un po’ di più il volume.

Avevano creato un programma basandosi sulla mia vita e lo venivo a sapere solo adesso? Ok ero a conoscenza del fatto che non era così, non vivevo in una specie di Grande Fratello alla Truman show e non ero l’unico ragazzo al mondo a trovarsi in una situazione del genere, sarebbe stato alquanto irreale, ma la cosa mi lasciò piuttosto di stucco; cercai comunque di non farmi distrarre troppo dai miei sproloqui mentali.

Prestai molta attenzione alla storia di quel ragazzo, così simile alla mia; era come rivedersi in tv, e stavo letteralmente pendendo dalle sue labbra, perché non volevo perdermi nemmeno una parola.

Justin spiegò di come lui e Lori si fossero conosciuti ai tempi del liceo; lei era la tipica ragazza popolare e simpatica a tutti, sempre al centro dell’attenzione, e si era stupito quando Lori gli aveva proposto di studiare insieme, perché non credeva che avrebbe mai potuto notarlo. La riteneva l’unica donna della sua vita, le altre non riusciva nemmeno a guardarle.

Parlò del timore di ricevere un rifiuto da parte sua, perché c’era il rischio che la loro amicizia ne uscisse irrimediabilmente compromessa, e le cose non sarebbero più tornate come prima, tra di loro si sarebbe creato dell’imbarazzo, ma era comunque intenzionato a correre il rischio, perché quello era l’unico modo per farle capire ciò che provava per lei.

Chiese consiglio a un amico, che gli domandò se aveva pensato a tutte le possibili conseguenze, comprese quelle negative, e Justin rispose di sì, in un tono molto sicuro.

Potei leggere una grande determinazione nei suoi occhi, e provai una sorta di ammirazione nei suoi confronti; per fare una cosa del genere, specie sapendo che dei perfetti sconosciuti lo avrebbero visto, bisognava avere le palle.

La scena cambiò e arrivò la ragazza di cui era innamorato, la quale, ignara di tutto, spiegò alla telecamera che era la sua migliore amica e disse che lo avrebbe aiutato volentieri con quell’appuntamento al buio, perché lo riteneva un ragazzo fantastico e meritava di essere felice.

Parlarono un po’ e lei gli chiese se fosse nervoso e se avesse scelto un posto in cui portarla. Aveva puntato sul semplice: un bel ristorantino, niente di troppo lussuoso o pomposo; era molto intimo, adatto a quel tipo di appuntamento, era certo che avrebbe creato la giusta atmosfera. Lori si dimostrò entusiasta, anche perché quello era il suo posto preferito – ovviamente non era stata una scelta casuale – e gli disse che era certa che avrebbe fatto un figurone.

Si fermarono di fronte all’ingresso e Lori gli diede qualche ultimo consiglio, augurandogli buona fortuna. Si scambiarono un abbraccio e si salutarono, ma nel momento in cui lei gli diede le spalle e incominciò ad incamminarsi, Justin la richiamò, facendola tornare indietro.

Le disse che non c’era nessun’altra ragazza e che aveva organizzato tutto quello solo per lei, perché era speciale e gli aveva rubato il cuore fin dalla prima volta in cui si erano visti.

Cominciai a mordicchiarmi nervosamente il labbro e studiai l’espressione sul volto della ragazza, sentendomi coinvolto, come se ci fossi io al posto di Justin. Avrebbe accettato la sua proposta oppure no? Si vedeva che quella rivelazione l’aveva lasciata senza parole e, per un paio di minuti, non riuscì a dire nulla, si limitò a fissare il suo migliore amico. Ma gli occhi le si fecero improvvisamente lucidi, e quando Justin le chiese se voleva andare a quell’appuntamento insieme a lui, accettò e lo strinse in un abbraccio.

Anche lei ne era sempre stata innamorata ma, come Justin, aveva tenuto nascosti i propri sentimenti e non aveva voluto rivelarglieli, per paura che la loro amicizia potesse risentirne.

Dopo un bacio a stampo, dato con un leggero imbarazzo da parte di entrambi, mostrarono alcuni momenti dell’appuntamento, dove i due si scambiarono un sacco di tenerezze, e successivamente apparve la scritta “Due mesi dopo”; stavano ancora insieme ed erano felici, finalmente liberi di amarsi.

Justin suggerì agli spettatori di fare il grande passo e di non lasciarsi bloccare dalla paura, perché c’era sempre la possibilità che le cose andassero per il verso giusto, e non c’era niente di meglio che stare con la propria anima gemella.

Spensi la televisione e rimasi a fissare il vuoto per qualche minuto, ancora leggermente inebetito.

«Cavolo…», mormorai a me stesso. Con molta probabilità quella era tutta una messinscena creata di proposito per il programma, ma quel tizio sconosciuto aveva perfettamente ragione, e chi se ne frega se non c’era niente di vero.

Anch’io mi trovavo in quella stessa situazione, nella fatidica friend zone, dalla bellezza di cinque, lunghissimi anni.

Con i miei genitori ci eravamo trasferiti da Magdeburg a Berlino, con la speranza di poter vivere una vita migliore, ed essere l’ultimo arrivato non era mai stato semplice; solo nei telefilm poteva capitare che gli altri cominciassero a considerarti un gran figo dopo un gesto eclatante, o perché la ragazza più popolare della scuola aveva deciso di uscire proprio con te. Roba da fantascienza, insomma.

Tutti si conoscevano da anni, alcuni perfino dai tempi dell’asilo, e i miei compagni di classe non si erano dimostrati molto amichevoli nei miei confronti; nessuno si era preso la briga di avvicinarsi e di presentarsi, per instaurare un nuovo rapporto di amicizia, mi avevano semplicemente ignorato, come se non fossi neanche esistito. Quell’ostilità per niente velata non mi aveva permesso di aprirmi, e avevo finito col diventare sempre più introverso e chiuso in me stesso.

Passavo le giornate scolastiche a non parlare con nessuno, e trascorrevo la ricreazione in compagnia di me stesso, a guardare gli altri che si divertivano. Quando ero a casa ero costretto a mentire ai miei genitori, dicendo loro che tutto andava alla grande, perché non volevo che si preoccupassero inutilmente, era una cosa che potevo gestire da solo.

Le cose, per fortuna, erano poi cambiate. Una mattina avevo trovato il banco accanto al mio occupato da un altro ragazzino, che non avevo mai visto prima. Aveva i capelli corvini, la pelle molto chiara e gli occhi nocciola, che in un primo momento mi avevano ricordato quelli del cerbiatto Bambi; la cosa strana era che li aveva contornati con della matita nera, solitamente usata dalle ragazze, e questo mi fece pensare che quel tipo fosse un po’ strano, visto anche il modo in cui si vestiva. Ma, nel momento in cui mi ero seduto al mio posto, quel ragazzino mi aveva sorriso, ed io mi ero sciolto come neve al sole.

Mi aveva teso la mano, presentandosi; nessuno lo aveva fatto da quando ero arrivato in quella classe, e dubitavo seriamente che i miei compagni conoscessero il mio nome, dovevano già averlo dimenticato. Ma io avevo subito impresso nella memoria quello del mio compagno di banco.

Bill.

Mi raccontò che aveva saltato l’inizio della scuola perché non era stato molto bene, e ciò aveva comportato un suo ricovero in ospedale; si era annoiato davvero un sacco perché era un posto molto triste, e le infermiere non avevano fatto altro che rimproverarlo, dato che se n’era andato a zonzo per i reparti, ma non ne aveva tutta la colpa, non riusciva a star fermo per più di cinque minuti.

Non sembrava proprio uno che aveva trascorso un intero mese in ospedale, sprizzava gioia da ogni poro e mi venne spontaneo paragonarlo a un piccolo sole, perché i suoi sorrisi avevano il potere di illuminare la stanza. Il suo buon umore era davvero contagioso, e accanto a lui ogni brutto pensiero veniva subito cancellato.

I miei compagni di classe, vedendo che uno di loro mi aveva rivolto la parola e non era stato colpito da nessun contagio potenzialmente mortale, avevano cominciato a trattarmi come un qualsiasi essere umano e presero addirittura a rivolgermi la parola, ma a me non interessavano più; era come se avessi messo il paraocchi, perché riuscivo a vedere solo Bill. Gli altri sparivano dal mio campo visivo quando lui mi era vicino.

Con il passare dei giorni legammo sempre di più, nonostante fossimo uno l’opposto dell’altro. Non avremmo potuto essere più diversi di così, eppure c’era qualcosa di veramente forte che ci teneva uniti, come una forza invisibile. Sembrava quasi che ci fossimo ritrovati dopo molti anni, e Bill ipotizzò che ci fossimo già conosciuti nelle nostre vite precedenti, per questo avevamo un legame così intenso.

Da semplici amici diventammo migliori amici, e gli altri cominciarono a dirci che eravamo uguali a due gemelli siamesi, perché ci muovevamo solo in coppia e facevamo tutto insieme. Dove c’era Bill c’era sempre anche anch’io, e viceversa; era davvero difficile vederci separati, semplicemente non ci riuscivamo.

Mi era sentito il ragazzino più fortunato del mondo perché avevo il migliore amico del mondo, e all’inizio pensai che ciò che sentivo per lui fosse solo una grande amicizia e una profonda gratitudine, ma ero ancora troppo piccolo per capire, per sapere che, se il mio cuore batteva tanto velocemente quando lo vedevo, c’era una ragione ben precisa, ma che a quei tempi ignoravo, essendo troppo ingenuo.

Provai addirittura a parlarne con mia madre, perché nessuno sembrava essere in grado di darmi una risposta che spiegasse quello strano fenomeno, ma anche lei non riuscì a risolvere i miei dubbi, si limitò a sorridermi e a dirmi che ormai stavo diventando grande. A quei tempi pensai che la sua risposta non avesse alcun senso, che c’entrava il fatto dell’essere diventato grande con la frequenza cardiaca sballata che mi colpiva in presenza del mio migliore amico? Pensai addirittura che quello fosse il preludio di un infarto, e mi spaventai tantissimo.

Poco tempo dopo aver finalmente preso coscienza di me stesso e dei miei gusti (la cosa non mi lasciò per niente scioccato, anche perché io le ragazze non le avevo mai prese in considerazione nemmeno per un istante), nella mia testa si accese una lampadina; accadde quando Bill fu costretto a seguire i suoi genitori in vacanza e stette via per tutta l’estate. Avevamo continuato a sentirci per telefono, circa una decina di chiamate al giorno, ma per me non era stata la stessa cosa, e non averlo lì mi aveva fatto stare malissimo, come se nel mio petto si fosse creata una voragine. Quando era tornato, poco prima dell’inizio della scuola, avevo cominciato a guardarlo con occhi diversi, e non avevo più smesso di farlo. Il sentimento che provavo nei suoi confronti aveva semplicemente cambiato nome, ed era diventato più forte, molto più intenso, qualcosa che non mi era mai capitato di provare prima di allora.

Trovavo impossibile non riuscire ad innamorarsi di lui, perché Bill aveva praticamente tutto: era intelligente, simpatico, gentile, era un ottimo amico e aveva la capacità di saper ascoltare gli altri senza mai giudicarli. A lui avevo raccontato cose che nessun atro conosceva, e di alcune di esse non ne andavo particolarmente fiero, si trattava dei tipici errori che si commettono in gioventù, quando si è molto stupidi, ma Bill mi aveva sempre dato degli ottimi consigli. Sapeva dire la cosa giusta al momento giusto.

E poi era bello, così bello da non sembrare nemmeno umano. Quando passeggiavamo per strada e le persone si voltavano a guardarlo, io mi sentivo così orgoglioso di potergli stare accanto, e percepivo l’invidia che gli altri provavano nei miei confronti, e questo mi faceva sorridere. Molti di loro avrebbero dato qualsiasi cosa pur di trovarsi al mio posto.

La cosa che mi piaceva di più erano i suoi occhi, e non solo per il loro colore; i suoi erano occhi pieni di vita, libri aperti che mi permettevano di spiare la sua anima, dentro ai quali mi sarebbe tanto piaciuto poter annegare.

Non ero, comunque, stato il solo a notare tutte le meravigliose qualità possedute dal mio migliore amico, che ai miei occhi lo rendevano pressoché perfetto. Durante quegli anni aveva avuto un paio di ragazzi, niente di troppo serio, ma era stato come se qualcuno mi avesse strappato via il cuore per ben due volte, una sensazione decisamente poco piacevole.

Non sopportavo l’idea che qualcun altro potesse accarezzarlo o farlo ridere, che potesse baciare quelle labbra che io ero riuscito a sfiorare solo una volta, anche se Bill non se lo ricordava, perché quella sera aveva alzato un po’ troppo il gomito. Anche se quello che avevo ricevuto era stato un bacio accidentale, ne conservavo un meraviglioso ricordo.

Dovevo considerarmi un egoista se desideravo averlo tutto per me?

Come per il ragazzo di quel programma, anche per me la paura costituiva il principale freno; più di una volta avevo preso in seria considerazione l’idea di confessargli i miei sentimenti, perché temevo più di ogni altra cosa che un giorno potesse sbucare fuori un nuovo ragazzo che me l’avrebbe portato via, ma nutrivo il timore che per Bill io fossi solo un semplice amico, e che tra di noi si creasse dell’imbarazzo, ma non volevo rischiare di perderlo per sempre, le prime due volte mi erano bastate e non ci tenevo proprio a ripetere quell’esperienza.

Ero davvero combattuto, mi sentivo tirare verso due direzioni opposte, da una parte c’era una voce che mi diceva di smetterla di fare il cacasotto e di dire a Bill che lo amavo, dall’altra mi veniva suggerito di non mandare tutto a monte, e di questo passo mi sarei spezzato senza aver risolto un bel niente.

C’era però da dire che Bill non mi aveva mai costretto a frequentare i suoi ragazzi, mi aveva parlato ben poche volte di loro e in mia presenza non si era mai lasciato andare alle tipiche effusioni che ci si faceva tra fidanzati, come se sapesse che ci sarei rimasto male vedendolo; senza contare che, più di una volta, mi aveva giurato che nessun altro avrebbe mai potuto prendere il mio posto, come se, in qualche modo, avesse voluto rincuorarmi, facendomi capire che per lui ero veramente speciale.

Era proprio questo suo comportamento che mi aveva portato a nutrire il sospetto che, anche il mio migliore amico, provava dei sentimenti nei miei confronti, che andavano oltre la semplice amicizia, ma che non aveva ancora trovato il coraggio di confessarmelo. Era sempre così affettuoso, gli piaceva abbracciarmi e baciarmi le guance, mentre con gli altri non era altrettanto espansivo; io mi potevo considerare un “privilegiato”. Spesso e volentieri avevamo anche condiviso lo stesso letto, solo per dormire, purtroppo, ma al mio risveglio lo avevo trovato accoccolato al mio fianco e con un braccio sul mio stomaco.

Magari era tutta colpa del mio cervello, che mi faceva credere che quelli fossero dei segnali, perché lo desideravo con tutto se stesso, e che Bill si comportasse in quel modo perché voleva che fossi io a fare la prima mossa. Come facevo a non illudermi? Se solo avesse avuto quello stesso atteggiamento anche con gli altri suoi amici me ne sarei fatto una ragione, ma così mi stava facendo impazzire. Era innamorato di me oppure no?

In molti ci avevano etichettati come se fossimo già una vera coppia, per lo più per prenderci in giro, ma Bill non li aveva mai rimproverai e non si era mostrato inorridito all’idea che qualcuno potesse pensare che stessimo insieme, si era sempre limitato a sorridere.

Passavo intere nottate a pensare a come doveva essere poter dire a tutti che ero il suo ragazzo. Avremmo certamente continuato a fare tutto quello che già facevamo come amici, ma in più ci sarebbero stati i baci e non solo… Ed era proprio quel non solo a farmi salire la temperatura. Dovevo farmene una colpa? Avevo pur sempre diciassette anni ed ero in piena tempesta ormonale.

Tenere a freno il mio istinto primario era ogni giorno più difficile; tante di quelle volte avrei voluto farlo mio, o forse era meglio dire saltargli addosso, ma in questo modo lo avrei di sicuro spaventato, per questo motivo mi lasciavo andare unicamente nei miei sogni, e al mattino non era mai il solo a svegliarmi.

C’era comunque da dire che Bill, seppur inconsciamente, non mi era di grande aiuto, specie quando mi stava troppo vicino o mi si strusciava addosso per chiedermi qualche favore, anche se lui era convinto che io cedessi tanto in fretta a causa dell’imbarazzo. Ero costretto a conficcarmi le unghie nei palmi delle mani per impedire a me stesso di compiere un errore madornale.

Quella situazione era davvero dura, e mi portava via un sacco di energie, ma ora mi ero finalmente convinto a porre la parola fine; quel programma mi aveva aperto gli occhi. Basta aspettare, basta perdere tempo, era giunto il momento di agire!

Quando sentii la porta dell’ingresso aprirsi pensai che mia madre fosse già tornata, invece vidi apparire sulla soglia della mia camera proprio il mio migliore amico, zaino in spalla e sorriso sulle labbra. Sentii il mio stomaco fare una doppia capriola, ero davvero felice di vederlo.

«Come sta il malaticcio?», mi domandò, lasciando cadere la borsa a terra. «Sei ancora in quarantena?».

«Un vero schifo. Non ti avevo detto di usare le chiavi solo in caso di emergenza? Ad esempio se scoppiasse un incendio ed io svenissi a causa del fumo».

«A parte che, in una situazione del genere, non perderei tempo a usare le chiavi ma butterei giù la porta a spallate per salvarti, e poi questa è un’emergenza», rispose lui, facendo spallucce. «Ma se non mi vuoi me ne vado subito».

«No, no, no!», dissi prontamente, facendolo ridacchiare. «Resta, per favore, mi sto annoiando da morire e poi sono solo, mia madre è andata a fare la spesa».

«Resterò perché è il mio cuore da crocerossina a dirmi di farlo». Scalciò via le scarpe e salì sul letto, gettando a terra i fazzolettini usati senza mostrarsi minimamente schifato; in passato avevamo condiviso una gomma da masticare, cosa mai poteva fargli un po’ di moccio? Si mise comodo accanto a me e mi poggiò una mano sulla fronte; quel contatto mi provocò un piccolo brivido lungo la schiena. «Hai ancora la febbre?».

«Non so, ma sono contagioso; rischi di ammalarti se mi stai troppo vicino», lo avvertii, anche se era piacevole sentire la spalla di Bill premuta contro la mia.

«A dire la verità lo spero tanto, così avrò un buon motivo per saltare il compito di matematica di domani. Quindi sentiti libero di condividere i tuoi germi con me».

«A proposito di scuola», dissi, dopo aver recuperato la cognizione del tempo. «Non dovresti essere lì in questo momento?», lo rimproverai in tono scherzoso.

«Quanto ti ammali sei davvero un gran rompiballe», mi ribeccò, pungolandomi il fianco con un dito. «Se ho saltato l’ultima ora l’ho fatto per te, perché sentivo che eri qui tutto solo. Dovresti essermi riconoscente, razza di ingrato! Sto sfidando i tuoi germi pur di starti accanto, non tutti avrebbero avuto il mio stesso coraggio, questa è una grande dimostrazione di amicizia».

«Sono davvero commosso», scherzai, e notai l’ombra di un sorriso sulle labbra del mio migliore amico. «Che avete fatto oggi?».

«La professoressa Holland ha avuto una crisi perché ha beccato il marito a letto con un’altra, ed ha passato l’intera lezione a piangere, Dieter ha perso i pantaloni mentre facevamo educazione fisica e ora tutti sappiamo che durante quell’ora non porta le mutande, per il resto la solita noia. Senza di te non so proprio con chi giocare a battaglia navale». Sporse in fuori il labbro inferiore, assumendo l’espressione di un cucciolo. «Ti ho anche portato i compiti, ma so già che non li farai».

«Mi conosci fin troppo bene».

«Alcuni li ho svolti io, così i professori ti loderanno per aver trovato la forza di farli, nonostante la tua brutta malattia».

«Ti devo un favore enorme», dissi, facendogli un sorriso. Era o non era il migliore amico che un ragazzo potesse desiderare?

«E tu che hai fatto?», mi domandò Bill.

«Ho dormito, ho guardato la tv, niente di eccessivamente esaltante». Meglio non raccontargli dei miei deliri sugli alieni e sul medico/spacciatore, era troppo perfino per lui, abituato alle numerose idiozie che uscivano dalla mia bocca.

«Mattinata impegnativa», scherzò, e poggiò il capo sulla mia spalla, sfregando la punta del naso contro il mio collo. «Ew. Avresti almeno potuto cercare di trovare la forza di fare una doccia», mi rimproverò, storcendo appena le labbra in una smorfia. «Puzzi un po’».

«Questa non è puzza, è essenza di uomo», lo corressi.

«Uomo», ripeté Bill, scoppiando a ridere. «Ne riparleremo quando ti saranno spuntati i peli sul petto».

«Quindi mi preferiresti con un petto villoso? Stile uomo delle caverne?».

«Bleah!», commentò schifato. «Assolutamente no! Sei perfetto così come sei, non voglio vederti diventare un gorilla, mi rifiuterei di abbracciarti».

Erano questi i segnali di cui parlavo. Ogni volta se ne usciva con frasi del genere ed io non avrei dovuto permettere al mio cervello di rimuginarci sopra? Chi mai avrebbe potuto pensare che mi ero immaginato tutto? Mi stava facendo diventare matto.

«Puoi stare tranquillo, le medicine non hanno scatenato una mutazione genetica».

«Meglio così», commentò, e mi avvolse la vita con un braccio. «Altrimenti mi sarei sentito in dovere di legarti a letto per farti una ceretta».

Ignorai del tutto la parte che riguardava la ceretta e si soffermai su quel “legarti a letto”. I miei neuroni furono così bastardi da farmi figurare quella scena in testa in risoluzione HD e col dolby surround, e mi ritrovai a gemere appena, con sofferenza.

«Tutto ok?», mi domandò il moro.

«Non è niente, solo qualche dolore alle ossa», mentii, mentre cercavo di riacquistare il mio autocontrollo, anche perché, ridotto in quello stato, cosa pensavo di poter combinare? Bill sarebbe stato costretto a chiamare prima una gru per sollevarmi e dopo un’ambulanza per farmi rianimare.

«Sembri proprio un nonnetto», mi prese in giro, massaggiandomi una parte della schiena con la mano. «Va un po’ meglio?».

«Mh mh», mugugnai, voltando il capo nella direzione opposta alla sua, nel tentativo di non arrossire. «Grazie…».

«Vuoi che ti faccia dire trentatré?», scherzò, strappandomi un sorriso.

«Devi smettere di guardare Grey’s Anathomy».

«Scherzi?!», esclamò, strabuzzando gli occhi. «Derek sta cercando di convincere Meredith a tornare a lavorare con lui in neurochirurgia, ma Meredith ha fatto un errore durante un intervento, compromettendo per sempre l’uso della parola a una paziente, e alla fine entrambi capiscono che se lavorassero insieme finirebbero col danneggiarsi a vicenda. Quindi non posso smettere proprio ora, sono nel vivo dell’azione».

«Te lo sento dire dalla prima puntata», fui io a prenderlo in giro. Quando davano le puntate in tv si rifiutava di uscire di casa, e spesso mi costringeva a guardarlo insieme a lui, nella speranza che mi appassionassi, in modo da avere qualcuno con cui discutere dei colpi di scena.

«Guardare Grey’s Anathomy mi ha permesso di capire che avevi l’influenza», mi rammentò il moro, sollevando il naso per aria.

«La ringrazio, dottor Kaulitz, lei mi ha salvato la vita, le sarò debitore per il resto dei miei giorni. Le prometto che darò il suo nome al mio primo figlio maschio».

«Dovrei morderti il naso per questa tua, non tanto velata, presa per i fondelli, ma ora come ora non sarebbe un’idea molto saggia».

«Ti vendicherai quando sarò guarito?».

«È molto probabile», finse di minacciarmi e assottigliò le palpebre nel tentativo di intimidirmi, ma io scoppiai a ridere. «Oh andiamo, dovresti tremare di paura, non fartela sotto dalle risate», si lamentò, imbronciandosi.

«Così mi ucciderai», gli dissi, mentre mi poggiavo una mano sul petto, che aveva ricominciato a dolermi.

Avrei tanto voluto prendergli il viso tra le mani e baciarlo, proprio in quel momento, ma i gesti spontanei non erano mai stati il mio forte, e odiavo a morte quella parte di me stesso. Se fossi stato un pochino più impulsivo, se avessi ragionato col cuore e non con il cervello, a quest’ora non mi sarei più trovato nella friend zone da molto tempo.

«Tom sono a casa!», urlò mia madre, dopo aver aperto la porta di casa.

«Io sono sempre a letto», risposi, «e sono ancora vivo, quindi cancella pure il numero dell’obitorio dalle chiamate rapide».

La sentii poggiare le buste della spesa sul tavolo, e un attimo dopo mi raggiunse; in una mano reggeva la confezione da sei di negerküsse e nell’altra il sacchetto degli orsetti gommosi.

«Oh Bill, ci sei anche tu».

«Buongiorno Simone», la salutò con un sorriso. Era stata mia madre a obbligarlo a darle del tu, perché avendolo avuto per casa quasi ogni giorno, negli ultimi cinque anni, le suonava un po’ strano sentirsi chiamare signora Kaulitz proprio da lui, era come se io avessi cominciato a chiamarla madre al posto di mamma.

«Come mai qui?».

«Mancava un professore», mentì, con un’espressione angelica, «così ho deciso di venire a fare un po’ di compagnia a Tom».

«Che pensiero carino. Stare troppo da solo gli fa pensare cose molto strane», disse lei, poggiando i dolcetti e le caramelle sulle mie gambe. Prima di allontanarsi mi controllò la temperatura, che per fortuna sembrava essersi abbassata. «Se vi serve qualcosa io sono di là in cucina».

«Ok».

Mia madre uscì dalla stanza, dopo averci lanciato un’ultima occhiata, e si chiuse la porta dietro le spalle. Pensò che qualcuno avrebbe dovuto dire a me e a Bill di darci una bella svegliata.

«Ti sei fatto comprare i dolcetti da mammina?», sghignazzò divertito. Era arrivato il suo turno di prendermi in giro.

«Devo pur approfittare delle mie condizioni precarie, e poi i dolcetti mi aiutano ad alleviare il tremendo dolore che mi affligge».

«Non dovresti mangiarli, è roba da poppanti».

«Da questo momento ho cinque anni», decretai, aprendo il rivestimento di plastica dei negerküsse e addentando uno dei dolcetti rivestiti di cioccolato fondente. Chiusi gli occhi e mugugnai di puro piacere; quei cosini erano la mia droga, avrei potuto mangiarne a tonnellate.

Bill mi osservò con uno sguardo divertito ma, vedendo la mia estati da zuccheri, venne voglia anche a lui di mangiarli.

«Dammene uno».

«Non hai detto un secondo fa che erano roba da poppanti?», gli rammentai, tenendomi stretti i dolcetti. «Sono tutti miei», dissi, e gli mostrai un sorriso al cioccolato.

«Tomiii».

Stava usando il mio punto debole, che mente diabolica! Era stato lui stesso a darmi quel nomignolo, ed era inutile dire che, ogni volta che mi chiamava in quel modo, mi spuntava una coda pelosa e cominciavo a scodinzolare felice.

«Non attacca», cercai di resistere, e diedi un altro morso al dolce.

«E daiii». Bill si strusciò contro la mia spalla e mi diede un piccolo bacio sulla linea della mandibola. «Vuoi lasciarmi morie di fame? Io ho saltato la scuola per venire a trovarti, correndo un grosso rischio. Se uno dei professori mi avesse beccato sarei stato sospeso».

Pensai di continuare ancora per un po’ con quel gioco, in modo che Bill cercasse di convincermi con i suoi metodi, che a me piacevano tanto. Lo so, in casi come questi ero molto scorretto, ma non facevo niente di male.

«Ci devo pensare…».

«Se non vuoi darmi il dolcetto, allora sarò io a prenderlo».

Immaginai che puntasse alla scatola che tenevo stretta a me, invece mi afferrò la mano e fece sparire l’ultimo pezzo del dolce dentro la bocca, insieme alle mie dita. Quando sentì la pallina del piercing strusciare contro il mio polpastrello, mi sembrò che dentro la testa mi fossero scoppiati dei petardi. Capodanno era arrivato in anticipo.

Sarebbe riuscito a sentire il mio cuore che galoppava impazzito?

«Che faccia», ridacchiò, ripulendosi un angolo della bocca con la lingua. «Credevi forse che avrei mangiato anche le tue dita? Lo sai che sono vegetariano, e poi non ti ho sbavato più di tanto».

Bill non poteva sapere il perché avessi quell’espressione stampata sul viso, e c’entrava ben poco la saliva.

Che cosa potevo fare? Ero solo un povero ragazzo, la cui forza di volontà era sull’orlo di una crisi. Quella era la peggior forma di tortura che ci fosse al mondo, al confronto quelle inflitte dalla Santa Inquisizione erano bazzecole. Avrei preferito essere gettato in un fiume con una pietra legata ai piedi, piuttosto che dover continuare a patire una simile sofferenza; l’unica cosa che mi rincuorava era sapere che presto tutto sarebbe finito (ovviamente speravo in senso buono), e, se le cose fossero andate come volevo, avrei potuto rispondere a quelle provocazioni, non facendo una faccia da idiota ma afferrando Bill per il collo della maglietta per poterlo baciare.

«Quello era il mio dolcetto», gli rinfacciai, augurandomi che il mio tono di voce non assomigliasse a quello di uno a cui avevano appena dato un calcio nelle palle.

«Ti posso assicurare che era buono», rispose Bill, facendomi un sorriso. «Potremmo fare a metà anche con il prossimo, ma questa volta niente dita come extra, te lo prometto».

«Non ne sono poi così sicuro, chi me lo dice che tu non ti sia dato al cannibalismo?». Gli allungai uno dei negerküsse e rimasi a guardarlo mentre ne staccava un generoso morso.

«Sono bello?», mi domandò, mostrandomi i denti sporchi di cioccolato, proprio come aveva fatto io poco prima.

«Sei bellissimo», risposi con sincerità, pur sapendo che Bill l’avrebbe ritenuta una frase ironica, vista la situazione. Ma a me non importava, anche in quel momento, mentre masticava di proposito con la bocca aperta, lo ritenevo il ragazzo più bello che ci fosse al mondo.

Finiti i negerküsse passammo alle caramelle gommose, e Bill propose di vedere un film per passare il tempo. A entrambi piaceva il genere splatter, era una delle poche cose che avevamo in comune, e ogni volta che ne vedevamo uno non potevamo fare a meno di ridere, commentando il sangue palesemente finto e le scene tanto enfatizzate da risultare ridicole.

Ci pensò il moro a scegliere il dvd e a inserirlo nella Playstation; quando lo sentì cominciare a girare velocemente, prese uno dei joystick e tornò accanto a me, mettendosi sotto le coperte, al mio fianco. Selezionò play e intrecciò e gambe con le mie, accoccolandosi al mio busto.

Fu l’ennesima prova da superare, e, vista dall’esterno, quella scena era più ridicola degli splatter di terz’ordine. Da una parte c’era Bill, che mangiucchiava tranquillamente le caramelle, scartando quelle verdi, e dall’altra c’ero io, teso come la corda di un violino, per paura che il mio corpo reagisse a quella vicinanza.

Dovetti pensare a qualcosa di veramente macabro per evitare che la mia mente cominciasse a viaggiare verso lidi lontani, dove Bill ed io ci rotolavamo sulle lenzuola, sempre più svestiti.

«Non le vuoi le caramelle?», mi domandò il moro, notando che non ne avevo preso ancora una.

Non sapevo se sarei stato in grado di mandarle giù, visto che la mia trachea era ostruita dal cuore, che mi era schizzato dritto in gola.

«Fai ahhh». Bill ne prese una rossa, il mio gusto preferito, e me la poggiò contro le labbra, fino a quando non le dischiusi, e lui poté far scivolare l’orsetto gommoso dentro la mia bocca. «Che bravo bambino», disse, facendomi un buffetto sulla guancia.

Stirai le labbra in un sorriso forzato e mi concentrai sul film, ma le immagini parvero scorrere alla massima velocità, e finii col perdermi. Non ricordavo nemmeno il nome dei protagonisti, nonostante l’avessi già visto, ma in quel momento non era decisamente in me; non riuscivo a seguire la trama e a tenere a freno i miei pensieri, era uno sforzo disumano, specie nella mia condizione.

A metà del film, Bill cominciò a farmi i grattini sulla pancia, sapendo bene quanto soffrissi il solletico, anche se quella era solo una scusa; a quel punto gli dissi che non mi sentivo molto bene, il che era vero, ma l’influenza c’entrava ben poco.

«Allora è meglio se riposi», mi suggerì, mentre scostava le coperte. Scese poi dal letto e si rimise le scarpe. «Probabilmente ti è risalita la febbre, hai la faccia tutta rossa».

«S-sicuro…», dissi, coprendomi fin sotto al mento.

«Mandami un sms più tardi, ok?». Sistemò lo zaino in spalla e si riavvicinò a me, dandomi un bacio sulla fronte accaldata. «Così la bua passa prima», scherzò, sorridendomi. «Vuoi che dica a tua madre di venire a darti un’occhiata?».

«Non c’è bisogno».

«Ci sentiamo più tardi».

«Grazie per essere passato».

«Non potevo non farlo, non ci vedevamo da tre giorni e sentivo davvero la tua mancanza. Non posso resistere molto senza vedere quella tua adorabile faccia da scemo», ridacchiò, aprendo la porta. «A dopo».

«Ciao».

Vidi le spalle del mio migliore amico sparire dietro la porta, e mi lasciai andare a un sonoro sospiro. Ma come accidenti avevo fatto a resistere per ben cinque anni senza che la testa mi scoppiasse?!

Volevo stare con lui con ogni singola fibra del suo corpo, ormai non potevo più farne a meno, e quei due giorni di separazione forzata non erano stati difficili solo per Bill. Probabilmente, se non fossi stato costretto a rimanere a letto per via dei dolori, sarei andato io stesso a trovarlo, anche con la febbre a quaranta. Mi era mancato sentire il calore che provavo all’altezza del petto ogni volta che lo vedevo sorridere.

Forse mi era davvero risalita la febbre e quello non era altro che l’ennesimo delirio della giornata, ma mi sembrò che il mio corpo si stesse ricaricando di tutto il coraggio che mi era mancato in quegli anni.

Ormai avevo preso la mia decisione.

«Oggi sarà il giorno in cui uscirò dalla fr-». Storsi il naso e starnutii con forza, rischiando di sbattere la testa contro la testata del letto.

Ok non era proprio il momento più adatto per mettersi a programmare la mia uscita dalla friend zone, prima dovevo riuscire a sopravvivere a quell’influenza. Sarei stato disposto a imbottirmi di pastiglie che sapevano di broccoli, purché mi facessero guarire alla svelta.

Ogni minuto era prezioso e, senza la mia vicinanza, Bill era un bersaglio facile, quindi non potevo permettermi di star male ancora a lungo. Dovevo avere la meglio su quei germi, ora come ora era di vitale importanza.

La mia sfida contro l’influenza era ufficialmente cominciata.

*



Dopo un paio di giorni la febbre sparì e mia madre si stupì del fatto che avessi insistito tanto per poter tornare a scuola, nonostante mi avesse consigliato di restare a casa almeno per un altro giorno, in modo da scongiurare un’eventuale ricaduta. Che la febbre mi avesse messo un po’ di sale in zucca? Ero certo che l’avesse pensato, perché, di solito, per farmi alzare dal letto al mattino era spesso costretta a minacciarmi, e l’avevo vista fissarmi con aria quasi scioccata quando, aperta la porta della mia stanza, mi aveva trovato già vestito e pronto per uscire.

Mia madre non poteva sapere il perché fosse di vitale importanza, per me, tornare a scuola. Quel giorno avrei chiesto a Bill di aiutarmi con il mio finto appuntamento, e mi augurai che ci credesse, perché, fino a quel momento, la mia vita amorosa era stata al pari di quella di un comodino, e non si trattava di un eufemismo. Un po’ perché Bill era l’unico con cui volevo stare, un po’ perché mi intimidiva chiedere a qualcuno di uscire insieme, qualcuno che non fosse un mio amico. Non che in questi anni non avessi ricevuto delle proposte, alcune volte mi era capitato, ma io avevo sempre rifiutato.

Mi era alzato con un grosso peso sullo stomaco, era come se avessi un macigno, e in quel momento ero veramente teso; cercare di sembrare normale era un’impresa titanica, ma dovevo comunque riuscirci, in un modo o nell’altro.

Cominciai a mordicchiarmi nervosamente le unghie, un vizio di cui non ero ancora riuscivo a liberarmi, mentre aspettavo l’arrivo di Bill, fermo al solito angolo, dove ci incontravamo tutte le mattine prima di andare a scuola. Ci piaceva andare insieme e avevamo cominciato a farlo dal giorno in cui scoprimmo che le nostre case erano abbastanza vicine; questo ci permetteva di chiacchierare su ciò che avevamo fatto la sera prima, dal momento in cui avevamo chiuso la telefonata o smesso di mandarci sms. Intanto, dentro la mia testa, sembrava esserci una scimmia impazzita, e quella piccola dispettosa non faceva altro che saltare da una parte all’altra e strillare, e questo non mi permetteva di concentrarmi sul discorso che avevo preparato in quei due giorni.

Non potevo semplicemente chiedergli di aiutarmi, Bill mi avrebbe di sicuro posto delle domande a riguardo, e non volevo trovarmi impreparato, facendogli così capire che era tutta una messa in scena. Per questo motivo avevo pensato a una storia, sul dove e come ci eravamo conosciuti io e il ragazzo misterioso, ma non gli avrei detto alcun nome, perché ero certo che sarebbe corso a cercarlo su Facebook, per vedere che faccia aveva. Dovevo dargli risposte ben precise e, al contempo, dovevo rimanere anche sul vago; più facile a dirsi che a farsi. Pregai solo che il mio cervello fosse in grado di collaborare al momento giusto, e non decidesse di abbandonarmi.

«Tom!».

Sentii la voce di Bill alle mie spalle e mi voltai, vedendolo mentre mi correva incontro; le mie budella si contorsero dolorosamente, ed emisi un lieve gemito.

Mi saltò al collo, senza preoccuparsi del fatto che ci trovavamo su un marciapiede pubblico, e tutti i passanti potevano vederci.

«Come stai?», si informò il moro, dopo avermi baciato una guancia.

«Molto meglio», risposi, anche se avevo la voce ancora un po’ nasale; per far passare del tutto il raffreddore occorreva sempre qualche giorno in più. «La febbre, ormai, è solo un lontano ricordo».

«Mi fa piacere». Mi prese sottobraccio e ci incamminammo insieme verso la scuola. «Sei guarito giusto in tempo, mi è arrivato l’invito per partecipare a uno schiuma party e dobbiamo assolutamente andarci. Ti va? All’ultimo ci siamo divertiti un sacco».

Lo ricordava bene il mio povero sedere, sul quale erano comparsi un paio di lividi grossi come arance mature. Com’era fisicamente possibile che la gente riuscisse addirittura a ballare su una pista ricoperta di schiuma scivolosa? Per me era stato già difficile reggermi in piedi senza procurarmi una commozione cerebrale.

«Ma certo», risposi, facendogli un sorriso. «Non vedo l’ora».

Era inutile dire che, se Bill me l’avesse chiesto, sarei andato fino in capo al mondo insieme a lui, e, a dirla tutta, sapevo bene che questo mi faceva assomigliare a uno zerbino, sentivo bene le cose che gli altri dicevano alle mie spalle, ma non mi sentivo affatto così, e poi Bill non mi obbligava a far nulla, era una mia scelta quella di dire sì a ogni sua proposta, in modo da poter passare quanto più tempo insieme. Ero semplicemente innamorato, c’era forse qualcosa di male?

Mi raccontò di un programma divertentissimo che aveva visto in tv la sera prima, ma non lo stavo ascoltando per davvero, annuivo ogni tanto giusto per farglielo credere, ma la mia testa, in realtà, era altrove. Stavo cercando di introdurre l’argomento dell’appuntamento senza far capire a Bill che morivo dalla voglia di parlargliene; volevo che fosse tutto molto casuale.

Ci provai per un paio di volte ma le parole mi morirono in gola, e questo mi fece ben capire che il mio coraggio se n’era andato insieme alla febbre. Eppure davanti allo specchio mi ero sentito così sicuro di me, mentre ora avevo la lingua impastata e stavo sudando freddo.

Forse avrei fatto meglio a scrivermi tutto su un foglietto, in quel modo mi sarei dovuto limitare a leggerlo, ma così facendo avrei potuto dire addio all’effetto spontaneità.

Arrivammo a scuola e Bill mi trascinò verso il nostro gruppo di amici, che mi accolsero con calorose pacche sulla schiena, come se fossi appena tornato da un viaggio sulla luna.

Non potevo mettermi a parlare dell’appuntamento di fronte agli altri, Bill doveva essere il solo a saperlo, perché, se tutti avessero cominciato a riempirmi di domande o a prendermi in giro, cosa molto probabile, avrei finito col confessare che non c’era niente di vero, e mi sarei definitivamente giocato quell’opportunità.

Cercai di rilassarmi e promisi a me stesso che più tardi sarei riuscito a dirglielo, altrimenti avrei fatto meglio a lasciar perdere.

I ragazzi di quel programma erano riusciti a organizzare tutto e a confessare i loro sentimenti di fronte a una telecamera, pur sapendo che migliaia di persone li avrebbero guardati, quindi per quale motivo io non dovevo essere in grado di farlo?

Attribuii quel mio primo fallimento alla paura e all’eccessiva tensione, ma era l’ultima volta che le avrei dato la possibilità di avere la meglio. E poi, a dirla tutta, forse avevo fatto bene a tacere, perché di certe cose non si può mica parlare in mezzo alla strada. Sorprendente come fossi riuscito ad auto convincermi nel giro di un minuto.

Restare concentrato durante la lezione fu più difficile del previsto, e fui ripreso un paio di volte da un professore, che mi aveva beccato mentre ero intento a fissare il vuoto davanti a me. Non era di certo la prima volta che capitava – non potevo definirmi un alunno modello -, ma per quel giorno nessuno di loro poteva pretendere la mia totale attenzione, avevo ben altro a cui pensare, qualcosa di molto più importante, dal quale dipendeva il mio futuro.

Scarabocchiai sul quaderno nel tentativo di allentare la tensione, ma riuscii a spezzare la punta della matita per tre volte di seguito, prima di rinunciare. Quindi decisi di passare agli esercizi di respirazione, che mi avrebbero aiutato a rilassare la muscolatura e la mente; li avevo cercati su YouTube la sera prima, ma più di una volta ero incappato in video su donne che parlavano alle future mamme in attesa. Non essendo il mio caso ero passato ad altro, fino a trovare un tizio, palesemente gay, viste le sue meches biondo platino e la tuta viola, che insegnava alle persone a rilassarsi.

Chiusi gli occhi e provai a sgombrare la mente, concentrandomi solo sul mio respiro, e non mi si prospettava un compito molto semplice, perché era alquanto difficile ignorare la vocetta squillante della mia professoressa, che metteva a serio rischio la funzionalità dei miei timpani; non mi sarei sorpreso se, a causa sua, fossi diventato prematuramente sordo.

Sciolsi i muscoli del collo e delle spalle, come avevo visto fare a quel tizio, e incrociai le gambe sopra la sedia, chiudendo gli occhi. Ispirai lentamente l’aria nei polmoni e espirai altrettanto lentamente l’aria dalla bocca, ricominciando poi da capo.

All’improvviso mi sembrò di estraniarmi dal resto del mondo, non sentivo più nessun rumore, era come se qualcuno avesse abbassato di colpo il volume. Che stesse funzionando? E dire che avevo pensato che il tizio con le meches fosse solo un ciarlatano, dovevo ricredermi.

Provai uno straordinario senso di pace interiore, fino a quando non udii qualcuno schiarirsi la voce. Quel qualcuno era Bill, che stava cercando di attirare la mia attenzione.

Nel momento in cui sollevai le palpebre, notai che sia la professoressa che i miei compagni di classe, alcuni dei quali se la stavano ridendo sotto i baffi, erano tutti voltati verso di me, e il mio senso di pace cadde in picchiata fino a raggiungere i miei piedi, subito sostituito da una cocente sensazione di profonda vergogna.

«Signor Kaulitz ci tengo a ricordarle che questa è una lezione di storia, non di yoga», mi rimproverò la donna, aggrottando la fronte con disappunto.

«Mi scusi…», mormorai, rosso in viso. Provai l’impulso di scivolare sotto il banco e di restare lì fino al suono dell’ultima campanella.

«Si può sapere che ti è preso?», mi domandò Bill, nel momento in cui uscimmo fuori in cortile per la ricreazione. «È tutta la mattina che ti comporti in modo strano, cioè più strano del solito».

«Sono solo un po’ distratto».

«Un po’?», ripeté lui, in tono ironico. «È successo qualcosa?».

Era il momento migliore per parlargli dell’appuntamento, avrebbe spiegato il perché avessi avuto la testa altrove per tutta la mattina.

«In realtà sì, è successo qualcosa».

«Mi devo preoccupare?», mi chiese apprensivo. Bill non sopportava quando stavo male perché gli sembrava di poter sentire il mio dolore, come succedeva ai gemelli.

«No, è una cosa bella, almeno credo», gli risposi, sedendomi a terra e poggiando la schiena contro il muro. Avevo scelto un lato del cortile molto tranquillo, dove ero certo che non ci fossero orecchie indiscrete. «Non posso paragonarlo a qualcos’altro perché non mi era mai capitato prima».

«Vuoi dirmi di che si tratta?!», sbuffò, tirandomi per un braccio. «Così mi farai morire dalla curiosità».

«Non è una gran-».

«Tom!», mi interruppe il moro, aggrottando la fronte. «Smetti di tergiversare. Non costringermi a usare la violenza per farti cacciare fuori le parole di bocca».

«Ok, ok…». Mi passai una mano dietro il collo, un po’ a disagio. Stavo davvero per compiere il primo passo che mi avrebbe fatto uscire dalla friend zone; ero un tantino agitato, sentivo la colazione che mi si rivoltava nello stomaco e il mio cuore era prossimo al collasso. «Ecco io… ehm… io… ho un appuntamento».

Bill mi fissò per un istante prima di spalancare la bocca, decisamente esterrefatto. Forse non si sarebbe mai aspettato di sentir uscire una frase del genere dalla mia bocca; nel suo immaginario ero destinato a restare single, con una schiera di gatti al seguito.

«Tu che cosa?!», esclamò, con gli occhi che quasi gli uscivano fuori dalle orbite.

«Ho un appuntamento», ripetei parecchio imbarazzato. Mi stavo torcendo nervosamente le mani, perché non riuscivo a interpretare l’espressione sul viso di Bill; oltre all’iniziale stupore, ne era felice oppure no?

«E me lo dici così?», mi rimproverò, dandomi un colpo alla spalla. «Come se niente fosse? Non stai mica parlando del tempo!».

«In che altro modo avrei dovuto farlo?».

«Ed io che ne so?! Magari con una banda musicale, o con uno di quegli striscioni attaccato a un aereo. È una notizia talmente sensazionale che non basta semplicemente dirla. Perché non me ne hai parlato prima? Avevi una bomba del genere tra le mani e hai aspettato solo questo momento per sganciarla?».

«Ci siamo messi d’accordo solo ieri», mentii, seguendo il mio copione mentale.

«Lui chi è? Lo conosco? Lo sai che deve avere la mia approvazione».

«No, non lo conosci. Ci siamo incontrati per la prima volta alla festa di compleanno di mio cugino, e in questi giorni abbiamo parlato molto».

«Mi hai nascosto che stavi parlando con un ragazzo?», mi chiese, e ne sembrò deluso. «Tra di noi non ci dovrebbero essere segreti».

«Mi dispiace», mi scusai ed ero veramente dispiaciuto, come se l’avessi fatto per davvero. «Non te ne ho voluto parlare prima perché volevo esserne certo anch’io».

«Uhm… ok», rispose mogio, «ma non farlo mai più».

«Te lo prometto».

«Raccontami tutto. Come si chiama?», mi chiese, fremendo dalla curiosità. Mancò poco che mi si sedesse sulle ginocchia.

«Per ora preferisco tenerlo per me, per scaramanzia».

Bill roteò gli occhi verso l’alto. «Ok, ma almeno dimmi il resto. Com’è fatto? Che tipo è? Di cosa avete parlato?».

Avevo dovuto inoltrarmi nel mondo delle fanfiction per scovare una storia che facesse al caso mio. Molte erano al limite dell’assurdo, del tipo che i due protagonisti principali si giuravano amore eterno dopo aver conversato per dieci minuti; io avevo bisogno di qualcosa di semplice e realistico, e per fortuna ne avevo trovata una che potessi utilizzare.

«Sai che non volevo andare al compleanno, ma i miei hanno insistito e alla fine sono stato costretto a presentarmi. Gli amici di mio cugino non li sopporto proprio, sono una massa di idioti e, quando sono arrivato, stavano facendo una gara a chi riusciva a bere più latte senza vomitare. Così ho preso una birra e mi sono rintanato in cucina, aspettando che mio padre mi venisse a riprendere, stavo letteralmente fissando le lancette dell’orologio. Ci siamo conosciuti lì. Era venuto alla festa per fare compagnia a un suo amico, che lo aveva mollato un attimo dopo essere entrato in casa; nemmeno lui voleva stare in mezzo a quel branco di deficienti».

«È carino?», si informò il moro.

«Abbastanza, vedendolo mi ha subito ispirato una gran simpatia».

«Solo simpatia?», mi domandò in tono allusivo, facendo un sorrisetto malizioso.

«Se pensi che abbia cercato di saltargli addosso ti sbagli, non le faccio certe cose».

«Lo so, tu sei un bravo ragazzo», mi disse, facendomi un buffetto sulla guancia. «Sarà fortunato il ragazzo che ti sposa».

«Comunque», continuai, schiarendomi la voce, «gli ho chiesto quanti anni aveva e in quale liceo andava, e dopo abbiamo cominciato a parlare del più e del meno, e il tempo è volato via in un attimo».

«Avete scoperto di avere un sacco di cose in comune?».

«Al contrario, siamo completamente opposti, ed è proprio questo a piacermi. Il modo in cui riusciamo ad andare d’accordo nonostante le nostre differenze», risposi, e in quel momento Bill non poteva di certo sapere che era a lui che mi stavo riferendo.

«Deve piacerti molto, ti stanno brillando gli occhi», mi fece notare, e stirò le labbra in un sorriso molto dolce.

«Non immagini quanto», gli confermai; avrei tanto voluto dirgli che era lui quel ragazzo, ma era meglio non bruciare le tappe. «Ma ora ho bisogno di te».

«Di me?», domandò Bill, con sguardo confuso.

«Non ho mai avuto un appuntamento in tutti questi anni, e non so proprio cosa si deve fare. Insomma ci tengo molto a fare una bella figura con lui, e vorrei evitare di fare qualcosa di molto stupido. Sai bene che ne sarei capace».

«Ti aiuterò volentieri», mi disse, poggiando una mano sulla mia. «Non che io possa ritenermi un vero esperto di appuntamenti, ma qualche dritta te la posso dare».

«Sei davvero il migliore». Gli avvolsi un braccio attorno alla vita e gli stampai un bacio sulla tempia. «Non saprei proprio che fare senza di te».

«Sei il mio migliore amico, e se tu sei felice lo sono anch’io», disse, scoppiando poi a ridere. «Questa è proprio una frase degna di un film, avrei un futuro come attore».

E non solo lui.

Ci mettemmo d’accordo per preparare una strategia adatta per il mio primo appuntamento, Bill l’aveva presa come una vera e propria missione.

Ero fiero di me stesso per quell’ottima recitazione, se non avessi saputo che era tutta una farsa anch’io avrei creduto di avere un vero appuntamento con il ragazzo conosciuto alla festa. Ero riuscito a rimanere lucido, e tutto era andato alla perfezione. Potevo ritenere conclusa la prima fase, e, se anche la seconda fosse andata allo stesso modo, mi si prospettava un futuro tutto rose e fiori.


Usciti da scuola andammo a casa di Bill, perché non volevo che mia madre ci sentisse parlare dell’appuntamento e cominciasse a riempirmi di domande, facendomi strane vocine, molto imbarazzanti; ogni tanto tendeva a diventare un po’ ficcanaso, ma era una peculiarità di tutte le mamme, era nei loro geni, non potevano proprio farne a meno.

I genitori di Bill non erano in casa, quindi potevamo stare tranquilli.

«Tu va’ in camera», mi disse lui, dopo aver aperto la porta. «Io intanto prendo qualcosa da bere».

Annuii e raggiunsi la zona notte, entrando nella stanza del mio migliore amico. Inutile dire che mi era sempre piaciuto il suo stile, mentre la mia, a confronto, era piuttosto banale. Si vedeva che era la tipica stanza di un ragazzo di diciassette anni: piena di poster, di dvd di giochi e film, e puntualmente in disordine.

Quella di Bill aveva una parete tinteggiata di nero dove l’amico scriveva tutto ciò che gli passava per la testa, come, ad esempio, le strofe di una canzone che gli era piaciuta particolarmente o una poesia; anche io ci avevo scritto qualcosa, una dedica in cui gli promettevo che gli sarei sempre rimasto accanto. Una era rossa e vi erano appesi i biglietti dei concerti, dei viaggi che aveva fatto, alcune cartoline, i poster dei suoi gruppi preferiti e un sacco di fotografie. Nella gialla era sistemata una libreria, molto più fornita rispetto alla sua, e quella per Bill era la sua zona relax. Di fatti, oltre alla libreria e agli scaffali colmi di cd e vinili, c’era anche un comodo puf, sopra il quale passava le ore a leggere o ad ascoltare la musica. Infine c’era la parete bianca, decisamente più spoglia rispetto alle altre. Vi era una sola frase, scritta con l’acrilico nero: be yourself. Sii te stesso. Bill mi aveva detto che quella era un promemoria: ogni giorno gli ricordava di vivere la sua vita come voleva lui, di restare fedele a se stesso e di non cambiare solo perché gli altri non lo accettavano per com’era.

Lo ammiravo anche per quello. Più di una volta avevo sentito qualcuno prenderlo in giro per come si vestiva o perché assomigliava a una ragazza, ma a lui non era mai importato.

«Dovrei cambiare solo perché non piaccio a quei tizi?», mi aveva detto, con un sorriso sulle labbra. «Sono fatto così, e ciò che mi importa è che sia io a sentirmi bene con me stesso, se così non fosse sarei il primo a cambiare, ma lo farei solo per me».

Mi avvicinai alla parete rossa e guardai le foto, in gran parte delle quali c’era anch’io. Le ultime le avevamo fatte in un parco di divertimenti, in una di quelle cabine per fare le fototessere. Avevamo riso un sacco mentre il flash scattava e nell’ultima avevamo potuto aggiungere degli elementi decorativi: io sembravo un messicano, con il sombrero e i baffoni, mentre Bill aveva assunto le fattezze di un gatto.

«Eccomi», mi disse, mentre reggeva un vassoio con un paio di lattine di Coca Cola e due bicchieri, uno col ghiaccio ma senza limone, e uno con il limone ma senza il ghiaccio. Lo poggiò sulla scrivania e mi osservò. «Mi piacciono un sacco», commentò, riferendosi alle foto che stavo guardando.

«Anche a me».

«Dovremmo riandarci, che ne dici?», mi propose in tono allegro.

«Sarebbe magnifico», gli risposi con un sorriso.

«Ora pensiamo al tuo appuntamento». Tirò fuori il blocco da disegno e una matita e si andò a sedere sul suo puf, mentre io andai ad occupare la sedia girevole.

«Vuoi prendere appunti?», gli domandai divertito.

«Certo, così avrai una visuale più chiara di tutta la situazione, e non rischierai di dimenticare qualcosa. Punto primo: sai già dove andare oppure spetta a lui la scelta del posto?».

«Ha chiesto a me di farlo», risposi, mentre mi versavo un po’ di Coca Cola dentro il bicchiere con il ghiaccio. «Non ho ancora deciso dove portarlo, ma vorrei che fosse qualcosa di semplice. Niente di eccessivamente ricercato».

«Ottima idea!», convenne Bill, e scrisse posto semplice accanto al punto “luogo per l’appuntamento”. «Meglio andarci piano, oppure potrebbe pensare che tu stia cercando di fare il figo e che vuoi subito andare al sodo. Dovresti trovare un posto in cui tutti e due vi potete sentire a vostro agio, in modo che non si crei dell’imbarazzo; i lunghi silenzi sono il preludio del pessimo appuntamento».

«Ce ne dici del parco?», proposi, buttando lì la prima idea che mi era passata per la testa. «Non fa troppo freddo, e magari potremmo fare un pic nic e passeggiare».

«Ma come siamo romantici», sghignazzò, trascrivendo la parola parco tra parentesi.

«Credi che sia esagerato?», domandai, già pronto a scegliere un altro posto; in fin dei conti volevo che piacesse anche a lui.

«No, lo trovo molto carino», mi rassicurò, sorridendomi, «ed è diverso dai soliti posti in cui uno va per un appuntamento, sono certo che ne rimarrà piacevolmente stupito».

«Dovrei portargli dei fiori?».

«Cosa? Oh no!», rispose, scoppiando a ridere. «Ormai nessuno regala più i fiori al primo appuntamento, e poi sarebbe un po’ da checca. Non ti ci vedo ad arrivare lì con un mazzo di rose rosse, potrebbe riderti in faccia, oppure mostrarsi imbarazzato».

Finsi di ridere, ma in realtà avevo pensato veramente di portargli delle rose; per fortuna avevo evitato una pessima figuraccia. Certo che i film, alle volte, erano molto fuorvianti; avevo fatto una maratona di commedie romantiche, e l’unica volta in cui il protagonista non si era presentato all’appuntamento con dei fiori, aveva consegnato alla ragazza un mazzo di carote.

«Allora… uhm… delle caramelle?».

«Quello sarebbe un gesto molto carino. Io impazzirei se qualcuno mi si presentasse di fronte con una bustona di caramelle. A meno che il tuo ragazzo non sia uno fissato con le diete, in quel caso direi che è meglio evitare, potrebbe tirarti dietro una scarpa».

Fui entusiasta di sentire quella risposta, era proprio il genere di informazioni che mi servivano per rendere perfetto quell’appuntamento, anche se, in teoria, stavo barando, ma non credevo che Bill se la sarebbe presa, magari lo avrebbe lusingato sapere che avevo messo su tutta quella messinscena solo per lui. In fin dei conti era un gesto romantico, no?

«Dici che dovrei parlare di determinati argomenti?».

«Meglio di no, prepararli prima renderebbe le cose troppo artificiose, in pratica sarebbe come seguire un copione». Ed era proprio quello che stavo facendo in quel momento, ma era meglio che Bill ne fosse all’oscuro. «Avete parlato alla festa, no? Quindi più o meno sai già quali sono i suoi interessi. Magari puoi cominciare parlando di qualcosa che piace a entrambi, e poi sarà automatico passare da un argomento all’altro. Potresti anche parlargli di noi due, così metteresti subito in chiaro che siamo solo amici e, se anche ci vedesse insieme, non finirebbe per ingelosirsi».

Avvertii un crampo allo stomaco quando gli sentii pronunciare quel “siamo solo amici”, ma cercai di ignorarlo.

«Insomma devo essere me stesso».

«Questa è la regola principale. Non avere paura di annoiarlo, ed evita le tue solite paranoie; se ti ha chiesto di uscire significa che già gli interessi, quindi concentrati su questo, e tutto andrà per il meglio».

«Pensi che potrei piacergli per davvero?», gli domandai, ripercorrendo il bordo del bicchiere con il polpastrello. «Ho paura che, alla fine, non voglia più vedermi».

«Beh io non conosco questo ragazzo, ma sono sicuro che ti adorerà. Tutti vorrebbero avere un ragazzo come te al proprio fianco».

«Dici così perché sei di parte», scherzai, anche se il mio cuore stava battendo furiosamente, e vidi la fronte di Bill aggrottarsi.

«Non è assolutamente vero», mi rispose, con le guance arrossate. «Non ti sto dicendo queste cose perché siamo amici, lo penso per davvero. Tu sei un ragazzo speciale, anche se hai la tendenza a sottovalutarti, sono anni che te lo ripeto e tu ti ostini a non volermi dare ascolto».

Stirai le labbra in un sorriso e, per l’ennesima volta, provai l’impulso di andare lì e baciarlo con trasporto.

Ormai ero sempre più convinto del fatto che anche Bill ricambiasse i miei sentimenti, e questo mi faceva sentire al settimo cielo.

Ed è meglio non parlare di come mi facesse sentire sapere che, magari, era geloso del ragazzo con cui sarei uscito; non ebbi comunque il coraggio di chiederglielo, avrebbe sempre potuto negare l’evidenza. Io, invece, avevo una gran voglia di mettermi a urlare. C’era però da dire che anche lui sapeva recitare bene, non avevo notato il minimo cenno di fastidio da quando gli avevo confessato dell’appuntamento; probabilmente non voleva farmi notare la sua irritazione.

E se, in realtà, voleva che io e il ragazzo immaginario ci mettessimo insieme per davvero?

No, non era il momento di farsi venire simili dubbi. Tutto sarebbe andato per il meglio, e poi anche Bill mi aveva detto di evitare le mie solite paranoie, perché mi offuscavano il cervello e questo avrebbe compromesso la buona riuscita dell’appuntamento.

Non avevo alcuna intenzione di mettermi i bastoni tra le ruote da solo, mi sarei odiato per il resto della mia vita.

«Ehi», mi richiamò il moro, facendomi tornare con i piedi per terra.

«Scusami, ero soprappensiero».

Bill si alzò dal puf e mi raggiunse, poggiandomi entrambe le mani sulle spalle.

«Rilassati e svuota la mente da tutti i pensieri negativi». Spostò lo sguardo verso la scrivania e prese uno dei suoi bracciali, mettendomelo al polso. «Spero che questo ti possa aiutare, sarà come se fossi al tuo fianco».

Osservai le maglie d’argento, che brillavano alla luce che filtrava dalla finestra, e su una di esse vidi che era stata incisa una piccola B. Vi passai sopra un dito e le mie labbra si distesero lentamente in un sorriso. Sollevai poi lo sguardo, incrociandolo con quello del mio migliore amico, e non ci fu bisogno di aggiungere altro. In quel silenzio era già stato detto tutto.

*



Come aveva fatto Justin, anch’io decisi di andare a chiedere consiglio a un amico. Non che avessi dei dubbi a riguardo e fossi pronto a tirarmi indietro, anche perché ormai ero arrivato fin lì ed era troppo tardi per ripensarci; volevo semplicemente il parere di un’altra persona, qualcuno di cui potermi fidare e che fosse abbastanza oggettivo.

Questa persona la trovai intenta a lavorare su di una vecchia Volvo grigio metallizzata. Ero andato lì di corsa una volta uscito da scuola, perché sentivo il bisogno di parlargli il prima possibile.

Battei un paio di colpi sulla saracinesca alzata dell’autofficina, giusto per annunciare la mia presenza.

«Ehi Andi».

Il ragazzo venne fuori da sotto l’auto e mi osservò; aveva una grossa chiazza scura sulla guancia, sulla quale passò la manica della maglietta ormai rovinata, ma finì solo col peggiorare le cose.

«Kaulitz», mi salutò con un mezzo sorriso, mentre si rimetteva in piedi e si puliva le mani su uno straccio, anch’esse scurite dal grasso del motore. «A cosa devo questa visita? Mi stupisce il fatto che tu sia venuto qui da solo. Dov’è la tua ombra? Voi due non vi muovete solo in coppia?».

«Bill è andato a casa. Sono venuto qui perché devo parlarti». Era stato difficile convincere Bill a non seguirmi, avevo dovuto inventare un sacco di bugie, ma non potevo di certo permettergli di seguirmi, era lui il soggetto principale del discorso che stavo per fare ad Andreas.

«Wow, sembra una cosa seria».

«Ce li hai due minuti?», gli domandai, infilandomi le mani in tasca.

«Certo. Papà!», urlò, rivolgendosi all’uomo che stava lavorando su un’altra macchina. «Faccio una pausa».

Recuperò una lattina di birra dal minifrigo e mi seguì fuori, sedendosi su di un basso muretto. Aprì subito la lattina e ne mandò giù un paio di sorsi per rinfrescarsi.

Mi fermai di fronte a lui e cominciai a battere la punta della scarpa contro l’asfalto, ma era chiaro che stavo solo tergiversando. Andreas non mi mise comunque alcuna fretta, se ne stava lì ad osservarmi in silenzio e a bere la sua birra; a differenza di Bill, era molto paziente e non ti forzava a parlare, aspettava che fossi tu a farlo per primo, lasciandoti i tuoi tempi. Era una delle sue qualità che più apprezzavo.

Ci eravamo conosciuti a scuola ma non avevamo frequentato la stessa classe, perché Andreas aveva un anno in più di me; un giorno si era semplicemente unito al nostro gruppo, non ricordo nemmeno chi ce lo avesse portato. Il primo a parlarci era stato Bill, perché lui aveva il compito di rompere il ghiaccio, e successivamente me l’aveva presentato.

Andreas era quel tipo di persona che o la si ama o la si odia. Era sempre stato uno senza peli sulla lingua, quindi se gli stavi antipatico te lo veniva a dire direttamente in faccia, non ponendosi alcun problema. Era per questo motivo che non tutti l’avevano preso in simpatia, il suo non era un carattere facile da gestire, per questo io stesso mi era stupito del fatto che avessimo legato praticamente da subito, trovandoci d’accordo su molte cose.

Lo consideravo un po’ come il mio secondo migliore amico ma non gliel’avevo mai detto, perché il biondino detestava ogni tipo di etichetta.

«Devo confessarti una cosa…».

«Sapevo che, prima o poi, questo giorno sarebbe arrivato. Ti sei innamorato di me, non è vero?», mi domandò cercando di sembrare serio, ma era palese che gli venisse da ridere. «Io capisco che provi questa forte attrazione nei miei confronti, ma tra di noi non può funzionare, a me piacciono le tette».

«Che tu sia un idiota lo sai, dico bene?», replicai, scuotendo il capo.

«Ok, la smetto con le stronzate, volevo solo smorzare l’atmosfera, mi era sembrata un po’ troppo tesa. Continua pure».

«Magari ti potrà sembrare una cavolata, e forse non saresti il solo a pensarlo, ma-».

«Tom», mi interruppe un attimo dopo, «ci stai girando attorno, e credo tu te ne sia reso conto. Amico, dillo e basta, di che hai paura?».

«Hai ragione», mormorai, umettandomi le labbra. «Io… ho detto a Bill che avevo un appuntamento con un ragazzo e gli ho chiesto aiuto perché volevo che fosse tutto perfetto, ma in realtà non esiste nessun ragazzo, sto facendo tutto questo solo per lui, perché ho deciso di volergli confessare i miei sentimenti».

«Era ora!», esclamò Andreas, schiacciando la lattina vuota contro il muretto. «Pensavo che sarei morto prima di sentirtelo dire».

«Credi che sia un gesto folle?».

«Beh non si può dire che sia uno dei modi più classici per confessare a qualcuno i propri sentimenti, o il più comodo», commentò, grattandosi il mento, dove si cominciava a vedere un accenno di barba. «Non avresti potuto dirgli semplicemente che lo ami?».

«Da quanto ci conosciamo?».

«Direi più o meno tre anni», rispose il mio amico, aggrottando la fronte.

«E quante volte ho provato a confessarglielo?».

«Circa un trilione».

«Lo so che tutto questo può sembrare assurdo, ma io non sono uno che agisce d’istinto. Fino ad ora ho fatto un sacco di buchi nell’acqua, lo sai anche tu, ma in questo modo ho già superato il primo scoglio, e, sorprendentemente, sto riuscendo ad andare avanti senza farmela sotto dalla paura».

«Beh in fin dei conti non importa come lo fai, purché tu lo faccia», commentò il biondino, annuendo appena. «Sei venuto da me perché vuoi sapere cosa ne penso a riguardo?».

«Oltre a Bill, tu sei l’unica persona di cui mi posso fidare per davvero, non l’avrei mai detto a nessun altro».

«Ne sono davvero commosso», scherzò, poggiandosi una mano sul petto. «Ma, facendo la persona seria, ti dico che hai preso la decisione giusta. Voi due siete una coppia pur non essendolo ufficialmente, ed è palese che non siate più solo dei semplici amici. È come se foste sull’orlo di un burrone, e un solo centimetro vi separa dalla salvezza o dalla morte certa; non è la migliore delle metafore ma non so trovare di meglio».

«Hai perfettamente ragione», convenni con ciò che aveva appena detto. «Mi sento esattamente così, sul ciglio di un burrone. Non riesco più a tenermi tutto dentro, è come se i miei sentimenti stessero premendo per poter uscire fuori; se non glielo dico rischio di scoppiare».

«Non ti chiedo se hai pensato alle eventuali conseguenze di questo tuo gesto, perché, conoscendoti, ci avrai rimuginato su per delle ore».

«So bene che c’è la possibilità che io abbia frainteso i suoi atteggiamenti nei miei confronti, e che Bill mi veda solo come il suo migliore amico, ma devo farlo, perché altrimenti finirò col diventare matto. Questa storia sta cominciando a diventare ingestibile, sono stanco di dovermi trattenere per non fargli capire che sono innamorato di lui». Sospirai sconsolato.

«È una scelta davvero difficile. Non per fare quello che vuole portarti sfiga, ma la vostra amicizia, in caso di un suo rifiuto, potrebbe anche spezzarsi».

«Questa prospettiva mi spaventa molto, e se dovessi perderlo non credo che riuscirei più a riprendermi, ma preferisco rischiare piuttosto che continuare a vivere in questa situazione così confusa. Non posso più aspettare», dissi in tono serio, stringendo leggermente i pugni lungo i fianchi.

«Non so davvero come tu abbia fatto a resistere per tutto questo tempo», ammise il biondino. «Al tuo posto sarei scoppiato».

«Sono uno che ha molta pazienza, ma non sopporto più di vederlo uscire con gli altri, vorrei essere io il ragazzo giusto per Bill. Passare il tempo con lui rende migliore la mia vita».

«Devi comunque essere molto prudente nel rivelargli i tuoi sentimenti», mi consigliò saggiamente Andreas. «La cosa potrebbe lasciarlo parecchio frastornato, insomma il suo migliore amico gli ha appena detto che lo ama, è una botta non indifferente».

«Spero non pensi che sia uno scherzo», gli confessai i miei timori. «Se dovesse mettersi a ridere, potrei anche prendere in considerazione l’idea di scappare via».

«Hai già pensato a come potrebbero andare le cose che ti dicesse che vuole esserti solo amico?».

«So che tra di noi potrebbe crearsi dell’imbarazzo, credo sia inevitabile, ma mi auguro che la nostra amicizia non subisca un brusco cambiamento. Se mi dicesse di no continuerei comunque a stargli accanto, perché per me Bill è davvero importante, e prima ancora di essere il ragazzo che amo è comunque il mio migliore amico. Mi ha teso la mano quando gli altri mi ignoravano senza motivo, e durante questi cinque anni ci è sempre stato per me, in qualsiasi momento. Al massimo finirò in analisi per cercare di riprendermi».

Andreas stirò le labbra in un sorriso e mi si avvicinò, dandomi una pacca sulla spalla.

«Io faccio il tifo per te».

«Grazie», risposi, restituendogli il sorriso.

«Sai che io non sono un tipo romantico e tutte queste smancerie amorose mi fanno venire l’orticaria, ma se a questo mondo ci sono due persone destinate a stare insieme, siete proprio tu e Bill».

Chissà se il Destino era stato veramente così benevolo nei miei confronti, ma non dovevo aspettare ancora molto per conoscere quella risposta, che attendevo da così tanto tempo.

Quel sabato si sarebbe aperto un nuovo capitolo della mia vita.



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