Red Converse, G - Romantico - Twc not related - AU - OOC - Fluff - Introspettivo

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Redda
view post Posted on 3/11/2012, 14:26




Titolo: Red Converse
Autore: Redda
Genere: Romantico
Raiting: G
Avvisi: Twincest not related - AU - OOC - Fluff - Introspettivo




Disclaimer: I personaggi di questa storia non mi appartengono, niente di quello che ho scritto è mai successo e non ci guadagno niente a farlo.

Creative Commons License
Red Converse by Redda is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.

Vietato copiare!






Correvo come un forsennato, la milza mi faceva un male cane, e sembrava quasi che stesse per esplodere da un momento all’altro; la gola e i polmoni mi bruciavano per via del freddo, correre in pieno novembre non era un’attività molto salutare, ed essere un assiduo fumatore non migliorava di certo la situazione, ma non potevo rallentare o sarei arrivato tardi al mio appuntamento, e non me lo sarei mai perdonato.

Dovevo raggiungere la stazione centrale e i mezzi, quella mattina, non mi erano stati molto d’aiuto. Il tram su cui ero salito era incappato in un ingorgo, provocato da un incidente, ed io rimasi ad ascoltare per dieci minuti l’autista, che strombazzava e inveiva contro gli altri, come se in quel modo potesse risolvere la cosa, ma servì solo a creare un fastidioso coro di clacson, che mi provocò una leggera emicrania. Quando capii che non ci saremmo mossi per un bel po’, gli chiesi di aprire le porte e di farmi scendere; la stazione non era molto lontana da lì ed era meglio proseguire a piedi. Come me, anche gli altri passeggeri che avevano un treno da prendere ebbero la stessa idea.

Controllai per l’ennesima volta l’orario sul display del mio cellulare; mancava appena un quarto d’ora alle 9.10, quindi mi restava un margine di tempo minimo, ma ero quasi arrivato, riuscivo già a scorgere l’orologio che si trovava sopra l’ingresso principale. Potevo ancora farcela, dovevo solo fingere di non sentire i dolori lancinanti che pulsavano in ogni angolo del mio corpo.

Schivai con agilità una vecchietta che stava passeggiando con il suo cane, e ignorai il semaforo rosso per i pedoni. Quella mia evidente mancanza di rispetto nei confronti del codice della strada, costrinse due macchine a inchiodare di colpo, per evitare che io finissi la mia corsa dritto all’obitorio, ed io mi limitai a sollevare una mano in segno di scuse. Non restai lì ad ascoltare gli accidenti che sicuramente mi erano stati lanciati, e che mi ero meritato.

I minuti scorrevano uno dopo l’altro, e la mia maglietta era ormai zuppa, sentivo le goccioline di sudore che mi scorrevano lungo la schiena, provocandomi dei leggeri brividi per il freddo; sarebbe stato un miracolo se, dopo quella corsa non prevista, ne fossi uscito incolume, perché un bel raffreddore non me lo toglieva nessuno. Ma neanche l’idea di dover stare a letto con quaranta di febbre mi impedì di aumentare il passo. I muscoli delle mie gambe erano ormai allo stremo delle forze e mi imploravano a gran voce di fermarmi, ma non diedi loro retta, mi sarei riposato una volta salito sul treno.

Finalmente mi ritrovai nella Willy-Brandt-Platz e proseguii spedito verso l’ingresso nord. Fare l’abbonamento era stata un’idea geniale, in questo modo potei tranquillamente evitare la lunga fila alla biglietteria, che mi avrebbe fatto sprecare secondi preziosi. C’era sempre qualche imbranato che costringeva gli altri a stare lì in piedi ad aspettare i suoi comodi.

Mi concessi qualche minuto per riprendere fiato; poggiai i palmi delle mani sulle ginocchia e feci un paio di profondi respiri, avrei anche voluto bere qualcosa dato che la gola mi si era seccata, ma passai. Per fortuna quella mattina non avevo fatto colazione, altrimenti a quell’ora avrei finito col rimetterla sul pavimento della stazione, e non sarebbe stato uno spettacolo gradevole. Mi tamponai la fronte con la manica della felpa e mi congratulai con me stesso per aver avuto la brillante idea di portare una maglietta di ricambio; non volevo presentarmi in quello stato, non ero esattamente un bel vedere. Sembrava quasi che mi fossi fatto la doccia con i vestiti addosso.

Raggiunsi la linea RB e lessi sul tabellone qual era il numero del treno in partenza per Berlino. Prima di salire, però, feci una rapida capatina in bagno, giusto per darmi una sistemata, in modo da tornare ad avere un aspetto almeno vagamente umano. Quando entrai vidi due uomini che si stavano facendo la barba. Mi lavai la faccia accaldata e tirai fuori l’Axe, abbondando con le spruzzate; quando fui certo di avere un odore accettabile, appallottolai la maglietta sudata dentro una busta e la spinsi sul fondo dello zaino, che mi rimisi in spalla dopo essermi cambiato.

L’altoparlante annunciò che il treno era in partenza, così schizzai fuori dal bagno e camminai lungo la banchina, fino a raggiungere il vagone numero cinque, sopra il quale salii, un attimo prima che le porte automatiche si chiudessero dietro le mie spalle. C’era mancato davvero poco.

Sentivo il cuore battermi velocemente nel petto e le ginocchia presero a tremarmi mentre varcavo la soglia. Lasciai scivolare lo sguardo sui passeggeri che avevano già preso posto, fino a quando non lo individuai. Lui. Il ragazzo con le Converse rosse.

Occupai uno dei sedili in cui ero certo di poterlo guardare senza essere beccato dal diretto interessato, e sistemai lo zaino sotto i miei piedi, osservandolo con discrezione.

I miei amici non facevano che ripetermi quanto io fossi pazzo, perché ogni giorno prendevo il treno per Berlino solo per poter vedere lui, senza contare il fatto che non avevo ancora avuto il coraggio di parlargli, e non conoscevo nemmeno il suo nome, sapevo solo che ogni mattina saliva su quel vagone e si sedeva sempre nello stesso posto. Probabilmente ero davvero pazzo, nessuna persona sana di mente farebbe qualcosa di simile, ma quelle due ore di tragitto per me erano le più belle di tutta la giornata, e non ci avrei rinunciato per niente al mondo.

Si sentì un lungo fischio e il treno cominciò lentamente a muoversi.

Il ragazzo con le Converse rosse tirò fuori uno spesso libro dalla borsa che si trovava al suo fianco, e lo sfogliò, fino a trovare la pagina che stava cercando. Lo vedevo spesso leggere, doveva essere uno studente universitario, ma da quella distanza non riuscivo a scorgere i titoli, di quelli che per me non erano altro che mattoni fatti di carta.

Mi piaceva guardarlo mentre studiava, osservare come il suo viso cambiava e un pochino avevo imparato a conoscerlo. Per esempio, quando leggeva qualcosa che gli piaceva sulle sue labbra compariva un sorriso rilassato, al contrario, quando qualcosa non gli piaceva, la sua fronte si aggrottava leggermente e mordicchiava la matita.

Tante volte mi sarebbe piaciuto sedermi accanto a lui, in modo da poter attaccare bottone, perché lo vedevo sempre solo, ma non mi andava di disturbarlo, non era educato; questa scusa mi impediva di pensare che, in realtà, non ero altro che un cacasotto, ed era la prima volta che mi capitava.

Di solito sono un tipo piuttosto estroverso, non faccio fatica a interagire con gli estranei, ma con lui era diverso, la mia lingua sembrava appiccicarsi al palato e tutto il coraggio svaniva, così me ne restavo lì in disparte, completamente invisibile ai suoi occhi.



Questa storia è cominciata esattamente due mesi fa. Mi sono ritrovato per caso a dover prendere il treno per Berlino, per andare a far visita a un mio vecchio amico, che era stato ricoverato in ospedale.

Quella mattina salii sul vagone numero cinque, ancora semideserto, e mi sedetti, in attesa che partisse. Misi gli auricolari alle orecchie e abbassai le palpebre, nella speranza di poter recuperare un po’ di sonno, dato che avevo regolato male la sveglia e quell’oggetto infernale aveva suonato prima del previsto, molto prima; si poteva dire che avevo ancora i segni del cuscino sul viso. Dopo pochi minuti arrivò lui; riaprii subito gli occhi quando mi passò accanto, e le mie narici inspirarono la scia di profumo che aveva lasciato al suo passaggio. Lo guardai raggiungere gli ultimi posti e non potei fare a meno di pensare che fosse veramente bellissimo.

Lo vidi sfilare lo zuccotto grigio e una cascata di capelli scuri gli ricadde sulle spalle, coperte dalla maglietta di un gruppo musicale che non avevo mai sentito nominare. Sistemò un borsone sopra la rastrelliera e questo mi permise di osservarlo meglio. Aveva delle gambe che sembravano non finire più, fasciate da un paio di skinny blu scuro, mentre ai piedi calzava delle Converse All Star rosse, leggermente rovinate. Fu in quel momento che lo ribattezzai “il ragazzo con le Converse rosse”.

Il suo viso era quanto di più bello mi fosse mai capitato di vedere in tutta la mia vita. Ogni dettaglio era pressoché perfetto: gli occhi, gli zigomi, le labbra, i lineamenti delicati, sembravano essere stati scolpiti dalle mani di un angelo.

Probabilmente mi lasciai andare un po’ troppo nel decantare la sua bellezza, ma non potei farne a meno, mi aveva lasciato a bocca aperta, e mi ritrovai inevitabilmente a fissarlo per le sue ore successive, senza che lui se ne accorgesse, intento com’era a sfogliare un libro, ma doveva averlo fatto la signora accanto a me, perché la sentii ridacchiare un paio di volte. Dovevo aver avuto un’espressione da ebete.

Quando arrivammo a destinazione, per quanto cercai di stargli dietro, lo persi di vista in mezzo alla folla di viaggiatori, e non seppi in che direzione fosse andato. Così mi ritrovai a pregare di poterlo rivedere ancora, e il giorno seguente il mio desiderio venne esaudito. Pensai che si trattasse di un segno del destino, non poteva essere altrimenti.

Era l’occasione giusta per parlarci e, chissà, magari per strappargli un appuntamento, non mi sarebbe dispiaciuto uscire con lui per conoscerlo meglio, ma anche quella volta andò a finire come la precedente; mi limitai a guardarlo dal mio sedile e a pensare che fosse ancora più bello di quanto ricordavo. Anche senza fare niente di particolare, semplicemente restando lì seduto era capace di farmi battere il cuore all’impazzata. Fu in quel momento che decisi di voler godere ancora della sua bellezza, mi bastava solo quello, e da quel giorno presi il treno per Berlino ogni mattina, poi, una volta arrivato lì, me ne tornavo a Magdeburg con quello successivo.

Voi direte che sono folle, ma quando siamo innamorati non è così un po’ per tutti?



Sospirai appena e cominciai a far volare la fantasia, immaginando come sarebbe potuta essere la nostra vita insieme, se solo mi fossi deciso a tirare fuori le palle, ma cosa avrei potuto dirgli? Ciao, è da due mesi che prendo questo treno solo per guardarti? Correvo il rischio di beccarmi una denuncia per stalking, ciò che stavo facendo poteva risultare agghiacciante agli occhi di qualcun altro, e non volevo di certo finire in galera. E poi non era detto che anch’io gli piacessi, in fin dei conti non mi aveva mai degnato di un solo sguardo in quei due mesi.

E se fosse stato fidanzato? Portava spesso degli anelli ma nessuno mi dava l’idea che fosse quel tipo di anello; magari non era un tipo tradizionalista e certe cose non gli piacevano. No, non ci dovevo pensare, perché se fosse stato davvero così mi si sarebbe spezzato il cuore, quindi preferivo restare attaccato alle mie fantasticherie, dove lui mi gettava le braccia al collo, dicendomi che ero l’uomo della sua vita, e a quel punto mi baciava con passione.

Immaginare quella parte mi faceva sempre alzare la temperatura. Chissà cosa si provava a baciare quelle labbra… sembravano essere così morbide; erano labbra che ti facevano venir voglia di mordicchiarle, e Dio solo sa quanto mi sarebbe piaciuto farlo, avrei finito col consumarle di baci. Ma se continuavo di quel passo rischiavo di non poterlo scoprire. In che modo potevo sperare di uscire con lui se non avevo nemmeno il coraggio di salutarlo?

Georg mi aveva suggerito di sedermi al suo posto, in quel modo sarebbe stato costretto a parlarmi, era una questione di educazione, a meno che non fossi stato tanto sfigato da vederlo occupare un altro sedile. Una volta ci avevo provato, anche se quel barlume di coraggio mi era costato una notte insonne e numerosi crampi allo stomaco, ma non appena lo avevo scorto sulla banchina, mi ero alzato di scatto e avevo cambiato posto, passando il resto del viaggio a darmi mentalmente dell’idiota.

Non riuscivo proprio a capire cosa mi bloccasse, era un ragazzo normalissimo e mi era sembrato anche gentile, uno con occhi come i suoi non poteva non esserlo, eppure io me la facevo addosso, e la sola idea di dirgli ciao mi faceva sudare le mani e mi mancava il respiro; mi sentivo annaspare come un pesce fuor d’acqua.

Cominciavo a rassegnarmi all’idea di dover vivere un amore platonico, e con il tempo, probabilmente sarei impazzito; la mia vita non sarebbe stata altro che un piangermi addosso per quell’unico rimpianto.

Anche quel viaggio giunse al termine, troppo presto per i miei gusti, e lo guardai sistemare le sue cose, prima di scendere dal vagone. Scesi anch’io ma non lo seguii, cambiai semplicemente banchina, in attesa del treno che mi avrebbe riportato a casa.

Ogni giorno era sempre più avvilente e mi dicevo che forse avrei fatto meglio a lasciar perdere, perché tanto quella storia non mi avrebbe portato da nessuna parte, eppure non ci riuscivo, era più forte di me, l’idea di non poterlo più rivedere mi faceva star male, era come se qualcuno cercasse di togliermi l’ossigeno; ormai mi era entrato nel cervello e da lì non se ne sarebbe andato tanto facilmente.

Dopo un’altra ora e mezza tornai a Magdeburg e raggiunsi il locale di mio padre, dove lavoravo da quando avevo sedici anni. Non era esattamente il lavoro dei miei sogni, ma un giorno sarebbe stato mio, quindi tanto valeva farci l’abitudine.

«Non ti chiedo dove sei stato fino ad ora», mi disse mio padre, appena varcai la soglia. «Ormai conosco la risposta».

All’inizio non aveva capito il perché mi dessi tanta pena per un ragazzo che non conoscevo neanche, e non lo capiva nemmeno ora, lo trovava privo di senso, ma si era rassegnato all’idea che suo figlio aveva completamente perso la testa, e che ormai era irrecuperabile.

«’Giorno papà», lo salutai, mentre poggiavo le mie cose dietro il bancone.

«Hai mangiato qualcosa?».

«No», risposi, indossando il mio mezzo grembiule nero, con una piccola K rossa sul lato sinistro. «Stamattina non sono riuscito a fare colazione».

«Simone!», urlò a sua moglie, che in quel momento si trovava nella piccola cucina. «Porta qualcosa a tuo figlio».

Ringraziai mio padre con un mezzo sorriso e cominciai a pulire il bancone, lavando anche qualche bicchiere, giusto per rendermi utile.

«Ecco qui, tesoro», mi disse mia madre, cinque minuti dopo, mentre mi porgeva un toast ancora caldo e una dose extra di caffè. «Va’ pure lì a mangiare».

Occupai uno dei tavolini, quello più vicino alla vetrata, e, non appena la caffeina cominciò a circolarmi in corpo, mi sentii come nuovo; era proprio ciò di cui avevo bisogno. Sentii tutta la fatica scivolare via.

Stavo addentando il toast quando mia madre si sedette di fronte a me, e mi scrutò con attenzione.

«Ancora niente?», mi domandò, poggiando la sua mano sulla mia.

Aveva preso a cuore quella storia, perché anche lei era un inguaribile romantica e sperava nel lieto fine, come quello delle favole. Ogni giorno mi chiedeva come andavano le cose, e a me dispiaceva darle sempre la stessa risposta, ormai ero diventato parecchio monotono.

«No», sospirai sconsolato.

«Tomi, non devi buttarti giù in questo modo», mi incoraggiò, facendomi un sorriso. «Prima o poi le cose cambieranno».

«E se non dovessero cambiare? Se stessi sprecando il mio tempo inseguendo un sogno irraggiungibile? Comincio a credere che sia così».

«Cos’è tutta questa negatività?», mi rimproverò bonariamente. «Devi avere più fiducia; se vuoi qualcosa e la desideri con tutto se stesso, vedrai che riuscirai a ottenerla».

«Sarà…», mormorai, osservando il fondo del caffè, alla ricerca di una risposta.

«Tomi, tu sei un bravo ragazzo», mi disse, accarezzandomi una guancia in modo affettuoso, «e meriti di essere felice, devi solo crederci un po’ di più. Dai retta alla tua mamma».

Era da due mesi che ci credevo, che speravo, pregavo e imploravo, ma non si era ancora smosso nulla. Sapevo bene che dipendeva tutto da me, dovevo solo fare la prima mossa, eppure era più facile a dirsi che a farsi. Stavo vivendo una continua lotta con me stesso, e per ora era l’altra parte ad avere la meglio; rischiavo di essere miseramente sconfitto.

«Quando hai finito di crederci, vieni qui e prepara due caffè», si intromise mio padre.

«Oh Gordon, sei sempre il solito», lo ammonì mia madre, aggrottando la fronte. «Perché ti ostini a non capire che tuo figlio sta soffrendo per amore? Dovresti dargli il tuo appoggio morale, sei pur sempre suo padre, ha bisogno che noi due gli stiamo accanto in un momento tanto difficile».

«Io lo capisco», le assicurò lui, «ma non lo pago per star lì a piangersi addosso».

«Mostra un minimo di tatto, razza di insensibile!».

Sorrisi nel vedere i miei genitori battibeccare tra di loro, perché anche quello era un modo per dimostrarsi amore reciproco, e invidiavo davvero il loro rapporto. Sedai gli animi abbracciando mia madre e promettendo a mio padre che avrei fatto dei turni extra per farmi perdonare, così li resi entrambi felici. E poi lavorare mi serviva a tenere la mente occupata, e a non pensare a quante ore mancavano al nostro prossimo incontro.



Per fortuna quella mattina non fui costretto a improvvisarmi un maratoneta, e il tram arrivò con largo anticipo. Me la presi con tutta calma, raggiunsi la banchina e salii sul vagone, come facevo di solito. Lo trovai vuoto, eccezion fatta per il ragazzo con le Converse rosse. Mi salii il cuore in gola quando realizzai che eravamo soli, e lo sentì battere dentro le orecchie.

Quella era l’ennesima occasione che il destino mi stava offrendo per farmi avanti.

Mossi un paio di passi in avanti, ma mi accorsi solo in quel momento che aveva il capo poggiato contro il finestrino e gli occhi chiusi; stava dormendo. Non potevo andare lì a svegliarlo unicamente per presentarmi, ci avrei fatto una pessima figura, così raggiunsi il mio posto e mi sedetti con aria sconsolata sul sedile, osservando il suo viso rilassato e incredibilmente bello.

Sarebbe stato meraviglioso potermi svegliare al mattino trovandomelo di fronte, avrei passato delle ore a guardarlo mentre dormiva; e sarebbe stato ancora più bello riempirlo di piccoli baci per destarlo dal sonno, così da poter ammirare quegli occhi nocciola ancora stanchi ma ugualmente felici di vedermi.

Era troppo chiedere di poter vivere una scena come quelle che si vedevano nei film romantici? Non era un desiderio troppo ambizioso.

Qualcuno fece sbattere una delle porte nel vagone vicino e il ragazzo con le Converse rosse sollevò le palpebre, sbattendole un paio di volte per riconnettersi al mondo. Si guardò brevemente attorno e finalmente il suo sguardo incrociò il mio. Non saprei descrivere a parole ciò che sentii dentro di me, ma aveva la potenza di una decina di bombe atomiche, e lo avvertii chiaramente esplodermi nello stomaco.

Mi aveva guardato, sapeva che esistevo.

Mi rivolse un sorriso imbarazzato ed io andai in brodo di giuggiole. Era arrivato il momento, dovevo fare qualcosa, adesso o mai più.

«Cia…».

Dentro il vagone entrarono una decina di persone e coprirono la mia voce, lasciando che il mio saluto si perdesse nell’aria. Questa però era sfiga! Gli sarebbe costato tanto arrivare cinque minuti più tardi? Avevano mandato in frantumi quell’istante idilliaco. Mi ci erano voluto due mesi per riuscire a pronunciare quell’unica parola, che fra l’altro non ero nemmeno riuscito a concludere per colpa loro.

Quando finalmente presero posto, il ragazzo con le Converse rosse aveva già chinato il viso su uno dei suoi libri, ed io odiai tutti i presenti, meno lui, ovviamente. Ora che ci penso avrei potuto sbarrare le porte, in modo che il vagone potesse essere tutto nostro, e ne avrei pagato volentieri le conseguenze.

Ci ero quasi riuscito, ero arrivato a un passo dal dirgli ciao, ma in minima parte potevo ritenermi soddisfatto, per lo meno avevo ricevuto uno sguardo e un sorriso, sempre meglio del solito niente.

Mi rilassai contro lo schienale del sedile e ascoltai un po’ di musica, sollevando lo sguardo su di lui di tanto in tanto. Studiai i suoi movimenti, che per me erano diventati tanto familiari. Immaginai di essere io quello che gli stava sistemando una ciocca di capelli dietro l’orecchio, prima di sussurrargli qualcosa che lo avrebbe fatto sorridere, non solo con le labbra ma anche con gli occhi.

Le mie solite fantasie si interruppero quando il treno cominciò improvvisamente a rallentare. Possibile che fossimo già arrivati? Controllai l’orario e constatai che era alquanto improbabile, eravamo in viaggio da appena quaranta minuti.

Osservai le espressioni confuse degli altri passeggeri che, come me, si stavano chiedendo cosa stesse succedendo.

Mi sfilai gli auricolari e li avvolsi attorno all’mp3, sistemandolo dentro la tasca della felpa, un attimo dopo il vagone venne invaso da una voce leggermente metallica che usciva dai piccoli altoparlanti posti in alto.

«Informiamo i signori passeggeri che, a causa di una frana sui binari, il treno subirà un ritardo. Ci scusiamo per l’inconveniente, provvederemo a ripartire quanto prima».

Ci fermammo del tutto e cominciarono a levarsi le prime proteste, nonostante fosse del tutto inutile prendersela col macchinista, non era stato lui a causare la frana quindi non aveva alcuna colpa.

Alcuni si alzarono e si sporsero fuori dai finestrini, nel tentativo di riuscire a vedere qualcosa, ma da lì era pressoché impossibile, eravamo troppo distanti dalla prima carrozza.

Forse era il caso di avvertire i miei genitori, non volevo che si preoccupassero non vedendomi arrivare; mia madre era piuttosto ansiosa e sono certo che avrebbe subito pensato al peggio, allertando la polizia, implorando loro di ritrovare il suo bambino.

Presi il cellulare e per puro caso sollevai lo sguardo di fronte a me; il ragazzo con le Converse rosse mi apparve nervoso, continuava a picchiettare un dito contro il suo telefono, a smontare e rimontare la batteria, e sembrò quasi lo stesse implorando, perché lo vedevo muovere le labbra.

Non so cosa mi spinse ad alzarmi dal sedile e ad avvicinarmi a lui, senza provare alcuna paura.

«Va tutto bene?», gli domandai.

Lui si voltò a guardarmi e batté per un attimo le palpebre con aria confusa, chiedendosi chi fossi, successivamente scosse il capo.

«No», mi disse, «il mio cellulare sembra essere morto, continuo a provare ad accenderlo ma lo schermo resta scuro. Probabilmente dev’essersi scaricato».

Era la prima volta che sentivo la sua voce, me l’ero spesso immaginata dentro la mia testa, ed era bella come tutto il resto. La sentivo come un coro celestiale solo perché stava parlando con me.

«Quest’oggi avrei dovuto consegnare una tesi molto importante e non so come avvertire il mio professore. Quest’imprevisto non ci voleva proprio».

«Tieni», gli disse, porgendogli il cellulare che ancora tenevo in mano. «Usa pure il mio».

«Non ti secca?», mi domandò, e sembrava titubante di fronte alla mia offerta.

«Figurati», risposi, facendogli un sorriso. Ed il suo viso parve risplendere di luce propria, tutto grazie a me; mi sembrava di poter toccare il cielo con un dito.

«Sei il mio salvatore».

Rimasi lì ad ascoltarlo mentre spiegava al suo professore cos’era successo e si accordava con lui per una nuova data di consegna.

«A giovedì, allora. Le auguro una buona giornata». Chiuse la comunicazione e mi restituì il telefono. «Grazie mille, sei stato veramente gentile, non so proprio come avrei fatto senza di te».

«Per così poco», minimizzai, facendo spallucce, anche se dentro di me stavo ballando la conga, con tanto di cappellino da festa e maracas in pugno.

«Io, comunque, sono Bill. Piacere di conoscerti».

Allungò una mano verso di me e io restai a fissarla, immobile, per un istante. Mi mossi a rallentatore e la strinsi delicatamente, per paura di potergli fare male in qualche modo; la sentii liscia e calda sotto la mia. Quella giornata si stava rivelando un continuo attacco alle mie povere coronarie. Speravo solo che non si trattasse dell’ennesimo sogno ad occhi aperti, ci sarei rimasto parecchio male.

«T-Tom», balbettai, deglutendo a fatica. «Piacere mio».

Avrei voluto stringergli la mano per tutto il resto della mia vita, ma stavo cominciando ad attardarmi un po’ troppo, e non volevo sembrare uno strambo ai miei occhi, non ora che ero finalmente riuscito a stabilire un contatto, così dovetti lasciarla a malincuore.

Non sapevo cosa dirgli, la paura era tornata a farsi viva, e un silenzio imbarazzante poteva essere la fine di tutto. Non volevo tornare ad essere un semplice puntino nel suo universo, desideravo parlargli ancora.

«Vai all’università?», gli domandai, lanciando un’occhiata ai libri che si trovavano sul sedile. Era una domanda stupida e piuttosto ovvia, ne ero consapevole, ma fu la prima cosa che mi venne in mente dopo il “Vuoi sposarmi?”.

«Sì», mi rispose con un sorriso. «Sto studiando psicologia infantile alla Libera di Berlino. Tu, invece?».

«Per me niente università, sono sempre stato uno studente molto pigro. Lavoro nel bar gestito dalla mia famiglia, non è esattamente la carriera che avrei voluto intraprendere, ma mi permette di mettere da parte qualche spicciolo».

«Cosa ti sarebbe piaciuto fare?», mi chiese, sinceramente interessato. Questo mi fece capire che non lo stavo annoiando e non mi avrebbe chiesto di lasciarlo in pace.

Tergiversai un attimo, perché mi vergognavo a dargli quella risposta, non volevo che pensasse che era solo uno stupido sognatore.

«Il chitarrista», gli dissi con un filo di voce.

«Davvero?».

«Beh sì…», risposi, grattandomi il collo con imbarazzo, «ho sempre sognato di far parte di una band famosa, di suonare in giro per il mondo e di avere un sacco di fan. Ti sembrerò uno sciocco».

«Al contrario», asserì. «A chi non piacerebbe diventare una rockstar? È un sogno molto comune. Come mai non ci hai provato? Se posso chiedertelo».

«Non credo di avere ciò che serve per essere un chitarrista», dissi, facendo spallucce. Non avevo proprio lo spirito del rocker bello e dannato.

«Come puoi esserne così sicuro?».

A pensarci bene non aveva tutti i torti, la paura di fallire mi aveva impedito a priori di provarci, un po’ com’era successo anche con Bill. Ero già partito con l’idea di non poter diventare un vero chitarrista, nessuno avrebbe mai sentito le melodie che componevo, escluse le quattro mura della mia camera da letto.

«Dovresti credere di più nelle tue capacità, non sai cosa può riservarti il destino».

«Hai ragione», convenni, abbozzando un sorriso. «Magari potrei provare a dare uno sguardo ai costi di qualche conservatorio, giusto per farmi un’idea». Io avevo litigato con il mio cervello per diversi anni e lui ci aveva messo due minuti a convincermi. Probabilmente sarei stato capace di dire sì a qualsiasi cosa fosse uscita dalla sua bocca, anche se mi avesse chiesto di camminare sui carboni ardenti.

«Allora mi conviene chiederti un autografo, così potrò dire che ti ho conosciuto quando ancora non eri una rockstar di fama mondiale».

Bill rise ed io provai l’irrefrenabile impulso di sporgermi verso di lui per baciarlo. Era talmente bello da farmi male agli occhi, e il rumore della sua risata mi provocò dei piacevoli brividi lungo la schiena, con tanto di pelle d’oca.

Possibile che un ragazzo del genere potesse esistere per davvero? Temevo che si trattasse solamente del frutto della mia fervida immaginazione. Era troppo bello per essere vero.

Volevo sentirlo parlare ancora, volevo sentirlo ridere, e volevo che continuasse a guardarmi.

«E tu? Hai sempre voluto fare lo psicologo?».

«Diciamo di sì. Mi piacciono molto i bambini e mi far star bene sapere di poterli aiutare in determinate situazioni, quando sono più fragili e bisognosi».

«Ma?», lo incalzai per farlo continuare, sentivo che non era tutto lì.

«Ma mi sarebbe piaciuto lavorare nel campo della moda», ammise, accennando un timido sorriso. «Ho provato ma il corso che avevo scelto era a numero chiuso, e purtroppo non sono stato abbastanza bravo da rientrare fra i primi venti. Ma non mi sono lasciato abbattere, ho portato avanti la mia passione e ora confeziono capi per me stesso, o li regalo a qualche amico».

«Impressionante», commentai, con sincero stupore. Oltre a essere bello era anche intelligente e talentuoso. «Magari si tratta solo di una questione di tempo, fra qualche anno potresti diventare famoso come quel tizio che usa sempre il rosso».

«Stai parlando di Valentino?», mi domandò, ridacchiando divertito.

«Proprio lui».

«Sarebbe bello ma non è così semplice, lui è un traguardo irraggiungibile».

«Non sei stato proprio tu a dirmi che dovrei credere di più in me stesso?», gli rammentai, e lo vidi sorridere.

«Hai ragione, ma non so proprio come fare. Bisogna avere certe conoscenze per cominciare a muoversi in questo campo, ed io non sono esattamente un mago del computer, non saprei nemmeno da dove cominciare per creare un portfolio virtuale».

«Posso aiutarti io!», esclamai, e un paio di passeggeri si voltarono a fissarmi. Mi schiarii la voce per smorzare l’imbarazzo; avevo alzato un po’ troppo la voce. «O meglio, potrebbe aiutarti un mio amico, è un web designer, anche piuttosto bravo. Potrei darti il suo numero, e se gli dirai che sono stato io a fornirtelo sono certo che lavorerebbe gratis, anzi lo obbligherò a farlo».

«Dici davvero?».

«Assolutamente».

I suoi occhi presero a brillare per la gioia ed io mi sciolsi come la neve durante una giornata di sole.

«Non saprei davvero come ringraziarti».

Esci con me! «Non ho fatto niente di che, figurati», minimizzai, scuotendo appena una mano.

«Scherzi?», mi chiese lui. «Per me hai fatto davvero tanto; prima il telefono e ora questo, sei una specie di angelo. Dove sei stato fino a questo momento?».

A due sedili di distanza dal tuo, ma tu non mi avevi mai notato. Dovevo sinceramente ringraziare quella frana sulle rotaie, mi aveva permesso di realizzare ciò che avevo desiderato per due lunghi mesi, e che fino a un attimo prima avevo ritenuto impossibile.

Sentimmo dei leggeri movimenti e pochi istanti dopo il treno riprese la sua corsa, per la gioia dei passeggeri.

«Forse è meglio che torni al mio posto».

«Perché non prendi la tua roba e non ti siedi qui?», mi propose, con un sorriso che mi fece tremare le ginocchia. «Mi farebbe piacere avere un po’ di compagnia, di solito viaggio sempre da solo».

Mi ritrovai a un passo dal chiedergli se si trattava di uno scherzo, riuscivo a malapena a crederci. Fino a ieri non mi aveva mai guardato nemmeno in faccia, e ora voleva che restassi lì con lui. Per fortuna non ero uno di quelli che arrossiva vistosamente, altrimenti a quell’ora avrei assunto le fattezze di un pomodoro maturo. Sentivo il sangue che mi stava ribollendo nelle vene, e tutto il mio corpo prese a formicolare.

«Vo-volentieri», accettai con molto piacere.

Recuperai alla svelta il mio zaino e Bill liberò il posto accanto al suo, che occupai in preda a un attacco di tachicardia.

Quello fu, senza ombra di dubbio, il miglior viaggio in treno della mia vita. Parlammo molto, o meglio fu lui a parlare, io mi limitai a intervenire di tanto in tanto, ma per la maggior parte del tempo restai ad ascoltarlo, con un enorme sorriso stampato sulle labbra.



Da quel giorno il posto accanto a Bill divenne il mio, e ogni mattina non vedevo l’ora di vederlo arrivare per godermi i suoi abbracci del buongiorno, come li avevo soprannominati io. Era sempre difficile riuscire a staccarsi.

Ormai eravamo diventati buoni amici, anche se io nutrivo ancora la speranza di poter essere qualcosa di più per lui.

Non gli rivelai mai il vero motivo che mi spingeva a continuare a prendere quel treno ogni mattina, mi limitai a parlare di un secondo lavoro, che mi permetteva di poter vivere da solo nel mio piccolo appartamento. Gongolai nel sentirgli dire che era fiero di me per gli sforzi che stavo facendo pur di mantenere la mia indipendenza, non tutti potevano vantare una tale forza d’animo.

Nonostante la nascita di questa nuova amicizia, non eravamo mai andati oltre, ci vedevamo sul treno, chiacchieravamo per due ore e, una volta giunti alla stazione di Berlino, ognuno proseguiva per la sua strada. Ma a me non bastava più.

I miei sentimenti nei suoi confronti erano cresciuti a dismisura, e ormai faticavo a non gridargli quando lo amavo ogni volta che mi guardava o mi sorrideva. Dovevo farmi avanti, anche se avevo un po’ paura, perché non volevo che in caso di un suo rifiuto, la nostra amicizia rischiasse di essere compromessa per quel motivo. Avrei potuto accettare un no ma non di perderlo.

Decisi di agire quel giorno.

Continuavo a sbirciare fuori dal finestrino, per vedere quanto mancava, e, nel frattempo, ripassavo mentalmente il discorso che mi ero preparato, sperando di non scordarmelo nel momento meno opportuno. Ci avevo messo impegno nel pensarlo, e mi era costato molti fogli della stampante, che ora giacevano appallottolati sul pavimento del mio salotto.

Durante il viaggio cercai di mostrarmi tranquillo, anche se dentro di me si stava scatenando un terremoto forza nove. Probabilmente se avessi dovuto lottare contro un pericoloso malvivente non avrei battuto ciglio, ma quello… richiedeva un grande sforzo d’animo.

Quando il treno cominciò a rallentare, non mi accorsi di aver trattenuto il fiato, fino a quando non cominciò a girarmi la testa.

Ci alzammo in piedi e ci mettemmo in fila per scendere. Mi muovevo in modo meccanico, come se qualcuno stesse tirando i fili legati ai miei arti, e presi a fissare con insistenza la nuca di Bill, coperta dallo zuccotto grigio, stringendo i pugni lungo i fianchi e ripetendo a me stesso che potevo, anzi no, dovevo farcela.

Il primo a scendere fu lui e mi aspettò, mentre si sistemava meglio la borsa sulla spalla.

«Ci vediamo lunedì», mi disse, e si sporse verso di me per baciarmi una guancia, in un gesto che ormai era diventato abitudinario, come gli abbracci. «Passa un buon weekend e non lavorare troppo».

La lingua mi si era paralizzata, muovevo la bocca ma non usciva alcun suono, e lo vidi darmi le spalle, ma per fortuna il mio cervello venne in mio soccorso e inviò un impulso al mio braccio, che si sollevò, in modo che io potessi stringere la mano attorno al polso di Bill, impedendogli di andare avanti.

«Che succede?», mi domandò stranito, dopo che si fu voltato verso di me. «Va tutto bene?».

«Io… ehm… volevo sapere… Hai… hai impegni per… tipo… domani?».

Il mio glorioso discorso si era ridotto a un imbarazzante balbettio, ma per lo meno gli avevo posto la fatidica domanda, ed era un miracolo che ancora non fossi svenuto sulla banchina.

«Niente di particolare, perché me lo chiedi?».

«Pensavo che… magari… potevamo… insomma… se ti va… prendere un caffè… o una qualsiasi altra bevanda… insieme».

Sulle labbra di Bill comparve l’ombra di un sorrisetto malizioso, ed io mi pentii di non aver comprato quel defibrillatore portatile che avevo visto su Ebay giusto un paio di giorni prima.

«È un appuntamento?», mi chiese con una nota divertita nel tono di voce.

Quella domanda inaspettata mi gelò il sangue nelle vene; mi aveva decisamente preso alla sprovvista. Il massimo che mi ero aspettato era di ricevere un sì o un no.

«N-no… cioè… se tu lo vuoi vedere come un appuntamento… ma non lo è… cioè… non lo si può chiamare proprio appuntamento… nel senso… è più un’uscita tra amici… perché noi siamo amici… e poi domani è sabato, non si può restare a casa di sabato… no? Da qualche parte nel mondo è ritenuto un crimine… o qualcosa del genere».

«Qualsiasi cosa sia per me va bene», accettò, ridacchiando.

«Hai… hai detto sì?», domandai, sinceramente stupito. Dovevo sembrare un perfetto idiota in quel momento, ma era stato l’effetto del suo sì.

«Quest’oggi sei piuttosto strano», mi disse, sollevando un angolo della bocca.

In effetti non aveva tutti i torti, mi stavo comportando come una specie di schizofrenico e non ci stavo facendo proprio una bella figura. Volevo che Bill diventasse il mio ragazzo, non che chiamasse il manicomio per farmi internare.

«Sarà colpa della luna piena», scherzai, ridendo in modo nervoso. «Va bene se ci incontriamo domani pomeriggio di fronte all’ingresso nord? Verso le cinque».

«Ok, a domani».

Lo guardai sorridermi prima di sparire in mezzo agli altri. Avevamo un appuntamento, lui ed io. Ero talmente felice che non riuscì a trattenermi e saltellai sulla banchina, facendo scontrare i talloni in aria. Avevamo un appuntamento, un appuntamento! Avrei voluto gridarlo al mondo intero.

Tornai a Magdeburg con un sorriso che andava da un orecchio all’altro, e mi sembrava di fluttuare su di una soffice nuvoletta rosa.

«Qualcuno è felice», mi disse mia madre, non appena mi chiusi la porta del bar dietro le spalle.

Io risposi con un sospiro trasognante e presi posto dietro il bancone, ma non mi misi a lavorare, poggiai il mento tra i palmi e osservai dritto di fronte a me, mentre il mio cervello mi concedeva una dose extra di endorfina, che mi donò un’espressione da ebete.

«Vuoi dire alla mamma cos’è successo?», mi chiese, avvicinandosi a me.

«È semplicemente il giorno più bello della mia vita», le risposi con un ennesimo sospiro.

«Siamo sicuri che tuo figlio non faccia uno di droghe?», domandò mio padre, scrutandomi con attenzione, alla ricerca di eventuali segni, oltre agli evidenti danni cerebrali.

«Non dire stupidaggini», replicò lei, dandogli un leggero colpo sulla spalla. «È solo innamorato, ed è tutto così romantico».

Non riuscii più a stare fermo, così presi mia madre per mano e improvvisai qualche passo di valzer nel centro del locale, senza curarmi dei clienti, che mi osservavano divertiti, mentre si godevano quello spettacolo improvvisato.

«Domani usciremo insieme», le comunicai, al settimo cielo.

«Oh Tomi, sono davvero contenta per te», mi disse, stringendomi in un abbraccio che mi spezzò il fiato. «Avete già qualche programma? Tipo una cenetta a lume di candela in qualche bel ristorantino».

«Mamma tu vedi troppi film. Pensavo di portarlo a bere un caffè, niente di particolare».

«Ma è un’idea meravigliosa!», esclamò, decisamente eccitata, e sembrava esserlo più di me. «Potreste venire qui, che ne dici?».

«Non credo che…».

«Sarebbe l’occasione perfetta per conoscerlo», mi interruppe mia madre, che a quanto pare era intenzionata a non ricevere un no come risposta. «È da mesi che ci parli di lui, ci piacerebbe almeno vedere com’è fatto. Non è vero, Gordon?».

«Non mettermi in mezzo», se ne tirò fuori mio padre, mentre asciugava i bicchieri con uno straccio.

«Ti prometto che non ti metteremo in imbarazzo, faremo i bravi; non vi accorgerete nemmeno della nostra presenza».

Non ero ancora del tutto convinto, insomma chi mai porterebbe un potenziale fidanzato a conoscere i propri genitori, soprattutto durante il primo appuntamento? Rischiava di diventare un disastro, ma mia madre sembrava veramente entusiasta e non me la sentii di dirle di no, in fin dei conti mi era rimasta accanto durante quei mesi, e si era sempre subita i miei piagnistei senza mai lamentarsi.

«Niente di strano, ok?».

«Hai la mia parola», mi giurò, mettendosi la mano destra sul cuore, per suggellare quella promessa.

Desideravo tanto che fosse tutto perfetto, e mi augurai che l’ansia non mi giocasse qualche brutto tiro mancino, era l’ultima cosa di cui avevo bisogno.



Prima di raggiungere la stazione, dove avrei incontrato Bill, cambiai almeno tre magliette; ero davvero agitato e continuavo a sudare. Stavo cercando di essere positivo e di pensare che l’appuntamento sarebbe andato alla grande, ma il mio subconscio continuava a propormi scenari disastrosi, che finivano tutti con Bill che se ne andava, dopo avermi urlato che non voleva più vedermi per il resto della sua vita.

Me la stavo facendo sotto dalla paura.

Arrivai lì con un’abbondante ora d’anticipo. Dopo essere sceso dal tram, mi fermai di fronte all’ingresso nord e aspettai, mordicchiandomi le unghie nel tentativo di scaricare un po’ della tensione che avevo accumulato, e fumando una sigaretta dietro l’altra.

E se non fosse venuto? Scossi con vigore la testa. Non dovevo fissarmi su certe cose, altrimenti rischiavo di scivolare nel baratro della depressione e di non uscirne più. Ci voleva ottimismo!

A un certo punto smisi di controllare l’ora, perché vedere che i minuti scorrevano velocemente non mi era molto d’aiuto, facevano solo accrescere l’ansia che mi stava logorando lo stomaco. Fissai un punto in lontananza, cercando di non pensare a niente.

«Tom!».

Quando riconobbi la voce di Bill tirai un sospiro di sollievo, e il mio cuore spiccò il volo nel momento in cui mi voltai verso la sua direzione. Le guance arrossate dal freddo lo rendevano adorabile.

«Ehi».

«Scusa il ritardo», mi disse, una volta che mi ebbe raggiunto, «ma ho dovuto aiutare la mia vicina con la spesa. È molto che aspetti?».

«Cinque minuti appena», mentii, non potevo di certo dirgli che ero andato prima, avrei fatto la figura dello sfigato.

«Dove mi porti?», mi chiese, sfregando tra di loro le mani fasciate da un paio di guanti scuri. «Ho decisamente bisogno di bere qualcosa di bollente, non sento più le dita dei piedi».

«Fidati di me», mi limitai a rispondere.

Aspettammo il tram che ci portò a una ventina di metri dal bar dei miei genitori. Mentre ci avvicinavamo gli indicai l’insegna, sulla quale spuntava una grossa K di colore rosso. Mio nonno non si poteva definire esattamente una persona fantasiosa, e aveva scelto il nome più banale della storia.

Uno scampanellio annunciò il nostro ingresso nel locale.

«Buon pomeriggio», ci salutò mia madre, che quella mattina era addirittura andata dal parrucchiere a farsi sistemare i capelli; sembrava quasi che fosse lei ad avere quell’appuntamento.

Proposi a Bill di occupare uno dei tavolini che si trovavano più vicini alla vetrata; era uno dei miei posti preferiti, mi piaceva guardare le persone che passeggiavano lungo il marciapiede, e fantasticare sulle loro vite, inventando delle storie. Era una cosa che facevo fin da bambino, quando andavo lì per fare i compiti.

Ci liberammo di cappotti e sciarpe, dato che dentro la temperatura era decisamente più accettabile, e mia madre venne a portarci i menù.

«Che cosa gradite?», ci chiese, con un enorme sorriso stampato sulle labbra.

Mentre Bill era intento a scrutare con attenzione la lista, io sollevai lo sguardo su di lei. Dal suo labiale capii che le piaceva, e mi fece anche un occhiolino d’assenso. Mia madre aveva dato la sua approvazione, e la cosa mi fece sorridere.

«Per me una cioccolata calda, con questo freddo è l’ideale», rispose Bill, richiudendo la copertina del menù.

«Una anche per me».

«Arrivano subito», disse, un attimo prima di lasciarci nuovamente da soli.

«È un posto molto carino», mi disse, guardandosi attorno con curiosità. «Come facevi a conoscerlo?».

«Vengo qui molto spesso», gli risposi, accennando un sorriso. «Diciamo che per me è come se fosse una seconda casa».

«Aspetta un momento… non mi dire… È il bar dei tuoi genitori?».

«Beccato», ammisi, sollevando appena le mani. «Volevo portarti in un bel posto e, non per vantarmi, ma questo è uno dei migliori locali di tutta Magdeburg. Trovi strano che ti abbia portato qui?».

«Assolutamente no», mi rassicurò. «Anzi, è stata un’idea carina. In effetti mi chiedevo come fosse fatto il bar di cui mi parli sempre, e non ha deluso le mie aspettative».

«Senza contare il fatto che mia madre fa la cioccolata più buona del mondo. Ti leccherai i baffi e non potrai più farne a meno».

«Allora non mi resta che dirti grazie», mi disse, ridacchiando appena. «Anche se questo piccolo peccato di gola mi toccherà poi smaltirlo in palestra, e non sarà affatto divertente, ma ne varrà la pena».

«Non ne hai bisogno, sei già perfetto così come sei», gli dissi senza pensarci, e mi accorsi troppo tardi della gaffe che avevo appena fatto. «Nel senso… sei in forma… e vai bene… per la tua altezza e tutto il resto…».

L’arrivo provvidenziale di mia madre pose fine a quella mia penosa arrampicata sullo specchio. Dovevo fare più attenzione quando aprivo la bocca, per lo meno dovevo ricordarmi di collegare bene il cervello, per evitare altre figuracce come quella.

«Ecco qui», disse, poggiando le tazze ancora fumanti sul tavolino. «Vi ho portato anche qualche biscotto, questi ve li offre la casa».

«Grazie mille, signora Kaulitz», le disse Bill, facendole un sorriso cordiale. «È stata molto gentile».

«F-figurati», rispose lei, e la vidi arrossire leggermente. Capii al volo che ne era rimasta affascinata. «E, ti prego, chiamami pure Simone, nessuna formalità».

Mia madre mi diede un calcetto sotto il tavolo, ed io lo interpretai come un “non provare a lasciartelo scappare”. Già sapevo che dentro la sua testa erano in corso i preparativi per le nostre nozze.

«Io sono Bill, un amico di suo figlio».

«Oh, so bene chi se…». Mia madre si bloccò quando le lanciai un’occhiataccia, facendole intendere che era meglio che Bill non sapesse che le aveva parlato di lui per interi mesi. «Cioè… è un vero piacere conoscerti. Ora scusatemi, ma devo servire anche gli altri tavoli. Passate una buona serata».

«Tua madre è proprio una bella donna. Le somigli molto».

«Stai cercando di dirmi che sono bello?», ironizzai, anche se il mio cuore fece una doppia capriola.

Bill non mi rispose, arricciò gli angoli della bocca in un sorrisino e afferrò la tazza, soffiandoci dentro per far raffreddare la cioccolata.

Quello era un segno? Mi stava facendo capire che anche lui provava qualcosa per me? Non volevo illudermi troppo, perché se avessi frainteso il suo comportamento ci sarei rimasto male. Era meglio rimanere con i piedi per terra, magari potevo sondare il terreno.

Passammo il pomeriggio a chiacchierare, e a rubarci la cioccolata a vicenda. Dentro di me continuato a sperare che il tempo si fermasse, perché volevo che quell’istante durasse per sempre. Stavo bene con Bill, sentivo che era la cosa giusta da fare e il mio corpo mi stava inviando dei chiari segnali. Era come se avesse finalmente trovato la sua metà perfetta; se l’avessi detto a qualcuno mi avrebbe guardato storto, ritenendomi folle, ma era la prima volta che provavo una tale chimica con una persona, e quella situazione mi affascinava e spaventava allo stesso tempo. Era qualcosa di potente.

Per me c’era solo lui, i clienti attorno a noi erano svaniti, completamente eclissati dalla sua presenza.

«Non credevo si fosse fatto così tardi», disse all’improvviso, osservando l’orologio appeso al muro del locale. Eravamo lì dentro ormai da tre ore. «Devo proprio rientrare, altrimenti chi la sente mia madre se faccio tardi per la cena».

Avrei voluto pregarlo di restare, ma mi limitai ad annuire. Ci avvicinammo alla cassa per pagare e mia madre si rifiutò di accettare i nostri soldi, obbligandoci a rimetterli nei portafogli. Salutammo lei e mio padre, e uscimmo fuori in strada, sistemandoci meglio nei nostri cappotti quando il vento ci sferzò le guance.

«Ti accompagno a casa», gli proposi subito.

«C’è un bel po’ di strada da fare».

«Non importa».

«Va bene, allora. Ti ringrazio».

Avrei camminato anche per centinaia di chilometri pur di godermi quegli ultimi istanti in sua compagnia; continuammo a parlare, passando da un argomento all’altro senza riuscire a fermarci, ed eravamo così vicini che le nostre mani si sfiorarono di tanto in tanto; desiderai poterla afferrare, stringendola sotto la mia, lasciando che le nostre dita si intrecciassero. Ma il tragitto fu troppo breve, mi sembrava di aver fatto solo pochi passi eppure eravamo già arrivati.

«Questa è casa mia», mi disse, indicando il portone alle sue spalle. «Grazie per la bella serata, mi sono divertito un sacco».

«Mi sono divertito anch’io».

Bill mi sorrise e mi abbracciò; questo sarebbe stato il momento perfetto per fare un gesto eclatante. Avrei potuto trattenerlo tra le mie braccia e baciarlo, come desideravo fare ormai da tempo, e finalmente avrebbe saputo che ero innamorato di lui.

Invece, da vigliacco qual ero, non feci un bel niente.

«Allora… Buonanotte, Tom».

Lo vidi giocherellare con le sue chiavi di casa, senza mai recidere il contatto visivo. Avevo visto un film in cui il protagonista spiegava che se qualcuno perdeva tempo a giocare con le chiavi significava che stava aspettando che tu facessi qualcosa, ma il mio cervello non fece riaffiorare quel ricordo, ed io ignorai il chiaro segnale che mi stava inviando.

«’Notte. Ci vediamo lunedì».

Feci un cenno di saluto con una mano e gli diedi le spalle, muovendo i primi passi per tornare a casa. Anche quella volta avevo fatto un buco nell’acqua, ero stato un vero idiota. Avevo avuto così tante occasioni per confessare tutto, ma non ero stato in grado di coglierle.

Ma, a un certo punto, le mie gambe si rifiutarono di andare avanti, e mi bloccai, fissando il marciapiede. Il mio corpo si stava ribellando contro la mia mente.

Era arrivato il momento di dire basta. Ero stanco di lasciarmi frenare dalla paura. Perché non potevo semplicemente dire al ragazzo che amavo che quelle ore trascorse con lui erano state meravigliose? Volevo stare con lui ma non facevo alcuno sforzo concreto per far sì che ciò accadesse.

Ero riuscito a parlargli quando credevo che non ci sarei mai riuscito. Eravamo diventati amici e avevamo passato una bellissima serata insieme, non potevo fermarmi lì.

Non mi sarei lasciato sfuggire anche quell’occasione. Non avrei passato la mia vita a rimpiangerlo, pensando ai se e ai ma.

Strinsi i pugni lungo i fianchi e decisi che era arrivato il momento di prendere in mano il mio destino. Mi voltai, pronto a correre verso quel portone per poterlo fermare, ma fui costretto a bloccarmi, e i miei occhi si sgranarono quando mi ritrovai Bill dietro le spalle, che mi fissava. Per fortuna i miei riflessi mi impedirono di sbattergli contro.

Che ci faceva lì? Ero convinto che fosse già salito in casa.

Feci per dire qualcosa ma poggiò una delle sue dita sulla mia bocca, impedendomi di parlare. Ero frastornato, non sapevo cosa fare, ma fu lui a fare tutto.

Intrecciò le braccia dietro il mio collo e mi baciò. Un bacio semplice, a fior di labbra, che mi lasciò spiazzato.

Mi ero arrovellato tanto il cervello, cercando il modo migliore per confessare i miei sentimenti e alla fine non ce n’era stato bisogno, perché Bill aveva capito tutto da solo.

Tremai, ma non per il freddo.

Sollevai lentamente le palpebre quando lo sentii allontanarsi, e restammo in silenzio a fissarci. Non c’era bisogno di dire niente, quel semplice gesto valeva più di mille parole.

Attorno a noi il mondo sembrava essersi fermato, e qualcuno doveva aver abbassato il volume, perché tutto ciò che riuscivo a sentire era il rumore del suo respiro che mi lambiva il viso e il battito impazzito del mio cuore.

Gli sistemai una ciocca di capelli dietro l’orecchio e strinsi le braccia attorno alla sua vita sottile, avvicinandolo maggiormente a me, beandomi del calore emanato dal suo corpo, che avvolse piacevolmente il mio.

Questa volta fui io a baciarlo, senza più alcun timore.

Le sue labbra sapevano di cioccolata, e di felicità.

*

Correvo verso il treno ma non ero in ritardo, e non rischiavo di perderlo; tenevo ben stretti i manici della busta di carta, che di tanto in tanto mi sbatteva contro le gambe.

Raggiunsi il vagone cinque e salii, ma quella volta non andai a Berlino.



Me ne stavo lì in piedi sulla banchina, a scrutare le rotaie scure. Attorno a me i viaggiatori partivano e arrivavano, facendo risuonare i loro passi sul cemento.

Quando sentii l’inconfondibile fischio del treno, mi voltai verso sinistra e lo guardai rallentare, fino a fermarsi di fronte a me.

Le porte elettriche si aprirono e osservai le facce stanche di chi non vedeva l’ora di tornare a casa, fino a quando, tra di esse, non individuai un sorriso radioso, che fece svolazzare le farfalle dentro il mio stomaco.

Aspettai che mi raggiungesse e vidi che dalla sua mano destra penzolava una busta.

«Bentornato», gli dissi, mentre venivo avvolto dalle sue braccia e dal suo profumo. Inspirai profondamente, riempiendomi i polmoni di quella fragranza deliziosa.

«Sai, oggi mi è successa una cosa strana».

«Ah sì?», gli chiesi con finta ingenuità, come se fossi stato completamente estraneo ai fatti. «E cosa?».

«Qualcuno ha lasciato questo sul mio sedile», mi disse, sollevando leggermente la busta in modo che io potessi vederla.

«Sarà stato un ammiratore segreto», ipotizzai, arricciando gli angoli della bocca in un sorrisetto.

«Spero tanto che sia carino, perché io adoro i regali inaspettati. Se lo incontrassi potrei proporgli di andare a bere una cioccolata calda insieme, ho sentito dire che molte storie d’amore sono nate proprio così».

«Sono certo che non ti direbbe di no», risposi, sfregando la punta del naso contro la sua.

Bill mi osservò divertito e mi accarezzò una guancia, donandomi il bacio che avevo atteso con impazienza per tutta la giornata, aspettando di poter risentire la morbida carezza delle sue labbra sulle mie.

Perse la presa sulla busta, che cadde a terra, e da essa rotolò fuori una scarpa: era una Converse rossa.




Note finali
: Finalmente, dopo un tempo esageratamente lungo, sono tornata a scrivere. Mi stupisco di me stessa per aver postato una one shot fluff, che, come ben sapete, non è proprio il mio genere XD ma in questi giorni mi sono sentita particolarmente romantica, non so perché, ogni tanto mi piglia così. Ringrazio Tumblr per avermi fatto trovare l'immagine delle All Star, da cui è partito tutto. Non ho altro da dire, spero che vi sia piaciuta (: Alla prossima fanfiction/one shot, quel che sarà.
 
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marty rock 97
view post Posted on 4/11/2012, 19:46




non sono mai stata capace a esprimermi,soprattutto se si tratta dei miei sentimenti,però anche se questo non sará uno dei migliori commenti,ci tenevo a dire che ho adorato questa storia.Il modo in cui scrivi,descrivi le sensazioni dei personaggi.....é qualcosa di unico.I miei piú sentiti complimenti e spero che scriverai tante altre stupende storie
 
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Redda
view post Posted on 5/11/2012, 22:08




CITAZIONE
marty rock 97

Grazie mille :)
 
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;Strange•
view post Posted on 9/1/2013, 22:27




Davvero stupenda (come sempre le tue OS) e davvero tenerissima **
 
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Giù‚
view post Posted on 10/1/2013, 10:27




Io ho un sacco di pensieri in testa a riguardo ... e loro così carini e romantici .. e dio la amo.
 
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4 replies since 3/11/2012, 14:26   273 views
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